Con gli occhi degli altri

di Valentina Menesatti

Se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.”
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV)

Sono le tre. Dovrebbe essere martedì, ma non ci giureresti.

Squilla il telefono di casa, lo cerchi e lo trovi nascosto sotto un cuscino del divano.

Pronto.

È il comitato.

Sai che vi riunirete alle sei?

Sì, sul serio, non mancherai questa volta.

Sì, una vergogna.

L’arteria verde della zona. Il Municipio. Le risposte insoddisfacenti. I pini secolari. Protestare.

Cortecce marce, spezzate come le ultime parole che pronunci per salutare.

Hai sonno, riagganci e la osservi nella sua culla bianco panna. Forse non le importerà mai degli alberi di viale Trieste. Ha tutta la vita davanti, può essere ciò che vuole e avrà molte più opportunità di quante ne hai avute tu. Quando avrà la tua età probabilmente non ci saranno neanche più, quei pini. Forse non vivrà neanche nei paraggi di questa macchia verde o magari ci passeggerà  noncurante, in barba alle proteste vivaci delle ultime settimane.

Le altri madri hanno paura. A spasso con i passeggini temono che cada un altro grosso ramo, com’è accaduto accanto all’ingresso principale della scuola superiore, qualche mese fa.

Tu invece non hai paura. Procedi tranquilla e quando ti sfiora il pensiero di uno schianto improvviso, ti sembra immediatamente eccitante l’idea che ti capiti qualcosa. E non perché aspiri a morire. Tutt’altro, fantastichi di esser viva infatti, ma per un pelo. Ti immagini in un letto d’ospedale con la flebo al braccio e gli occhi chiusi, di poco fuori pericolo. Salva e circondata dalle persone che ami, al centro della stanza, al centro della scena, finalmente.

Perché da quando è nata lei tu sei invisibile. Lo sei dal giorno in cui l’hai messa al mondo.

Ti aggiri per casa come un fantasma con le guance lattescenti e le risposte secche, troncate con l’accetta e talvolta gridate, pur di farti sentire, e inutilmente, considerato che sei trasparente anche per i tuoi genitori: non hanno occhi che per lei.

E così lui: non ti vede, diafana moglie. Va avanti a passo svelto, fa carriera e ti lascia indietro.

Ti ha ingravidata, adesso può tornare a caccia e al ritorno, nella vostra capanna, la sera, gli capita di portare in trofeo le pelli ancora calde di racconti stimolanti, provviste di successi lavorativi e obiettivi che ha conquistato. Tu gli sorridi ma senti la rabbia e l’infelicità crescerti dentro, gonfia e dolorosa come una montata velenifera che inquina la linfa e indurisce le membra. Le ossa si asciugano e scricchiolano dall’interno, cederanno, facili prede del primo vento, basta guardarti in faccia per capire che non sei salda. Eppure mascheri come puoi, tanto ci sono cose che gli vanno storte e anche di quelle ti rende partecipe. In quei casi lo consoli, gli dici di non abbattersi, intraprendi discorsi motivazionali con il tono fermo e tuttavia mai privo di affetto di chi ascolta lo sfogo ma poi pretende l’azione, la stessa che non riesci a compiere tu. Gioisci perché sei stata utile, ma in verità soprattutto perché ti fa piacere vederlo subire, per una volta. La prossima potrebbe rientrare in casa, sfilarsi il cappotto e dirti di nuovo che ha un’ottima notizia. Intenta a sterilizzare il ciuccio, eccoti sollevare appena il viso e dire: ti ascolto, senza riuscire a guardarlo negli occhi.

«È davvero una bella soddisfazione», fai. Lo abbracci, manifesti contentezza e scodinzoleresti se potessi, per esclamare fedeltà e amore. Ma proprio mentre lo stringi, vi osservi entrambi nel vetro della finestra del soggiorno e ti accorgi che la donna lì riflessa non ha occhi, soltanto palpebre cucite col fil di ferro in punti abbastanza fitti da render ciechi, ma distanti sufficientemente per consentire alle lacrime di colare giù. Perché non è un abbraccio, ma un mantello pesante e ruvido che la trattiene, come l’ombra d’un purgatorio di pietra livida.

Non strapperesti al tuo compagno quel successo, perché tu lo ami; né chiederesti d’averlo per te, perché sarebbe sleale riscuoterlo senza essertelo guadagnato.

Ciò che vuoi è che quel premio non esista al mondo. Ma siccome sai che al mondo, ci saranno sempre altri premi e altre soddisfazioni che le persone otterranno, allora vuoi che siano le persone a smettere di esistere.

Chiedi il deserto, e lo ottieni, polverizzando ogni desiderio, inclusi i tuoi.

Lui. Un altro capitolo della stessa trama il cui senso sfuggirebbe ai tuoi critici, di mestiere o d’occasione, perché tu stessa non sapresti dare un titolo a tutta questa storia, al sentimento inedito che ti domina e rade al suolo tutto ciò che cresce.

«Si possono trapiantare e spostare nella Villa».

«Tutti gli esemplari?»

«No, soltanto quelli in salute. Gli altri devono comunque essere abbattuti».

Ascolti le altre donne del comitato ragionare sul da farsi.

«Ma che sradicare e sradicare! Sono pini secolari. Devono essere curati e potati se rischiano di cadere. Vorrei ben vedere voi: rompervi una gamba e sentirvi dire che ve la amputeranno». Qualcuno alza la voce, scompiglia per un istante l’assembramento numeroso ma pacifico radunato in protesta.

Con un braccio spingi il passeggino avanti e indietro, e mentre annuisci dietro gli occhiali spessi e scuri, urti per sbaglio un’anziana che cerca di farsi largo nel vostro gomitolo di corpi. Ti affretti a chiederle scusa. Lei sorride con dolcezza increspando ogni ruga del viso, fino a quelle intorno agli occhi chiari, che lascia scivolare su tua figlia.

«Che bella bambina», dice.

Sei stanca, ringrazi con un filo di voce. L’anziana prosegue senza badarti, attraversa, si fa piccola insieme al viale che la inghiotte nel suo punto di fuga. 

«Masha Allah», senti dire alle tue spalle. Quando ti volti, vedi una donna con un fazzoletto sulla testa.

«Come?», le domandi.

La donna fa un passo avanti e ti si mette quasi accanto. «Dove sono nata io, quando viene fatto un complimento a un bambino, si risponde subito Masha Allah, cioè: volontà di Allah».

Indica il cielo, tu scuoti la testa perché credi di non aver afferrato il concetto e lei si morde le labbra come se potesse schiacciarne fuori una spiegazione. “Ain al hasoud”.

Aggrotti le ciglia. «Evil eye?» riprova. «Come si dice qui… il malocchio? Masha Allah è la nostra formula contro l’occhio dell’invidia».

«L’occhio del diavolo», ridacchia qualcuno lì di fianco. Ricevi una pacca bonaria sulla spalla che ti fa perdere leggermente l’equilibrio.

«Non lo sai?». È una tua vicina di casa, anche lei nel comitato di quartiere.

«Tiene l’uocchie sicche, diciamo, da dove vengo io», alza la voce sguaiata.

«L’invidioso ha gli occhi che seccano, portano sventura. Inteso?»

Parla proprio con te e per educazione sollevi le lenti nere sopra la testa. Il sole filtra oltre gli aghi sottili dei pini e ti acceca. Qualcosa ti dice che se continui a fissare i rami cadranno come frutti maturi, anzi forse è colpa tua se gli alberi sono venuti giù, sei tu che hai gli occhi pieni di invidia e bruci le cose vive, inaridisci la tua stessa anima dal rizoma alla cima.

Riabbassi gli occhiali da sole perché ti vuoi schermare. Senti la vergogna e ti volti, ti allontani fra la gente, verso casa, spingendo la carrozzina in salita, fra le mille radici nodose dei pini che cercano di farti inciampare, perché persino quei tronchi muti sanno che razza di persona sei.

Mormorano le altre donne del comitato, e nella confusione ti sembra domandino l’una all’altra, bisbigliando, se si può essere invidiose dell’uomo con cui si ha avuto una figlia. Sibilano le serpi, se si può mai essere invidiose della propria figlia stessa. Le voci, come un ronzio, si innalzano in sciami trascinate dal vento, mulinandoti intorno. Tu aumenti il passo. Il comitato ti chiama, ti chiede in coro di tornare con i piedi per terra, di fare la madre e di scendere alle sei anche domani per la protesta, per amare ciò che deve essere amato: tuo marito, tua figlia e l’ambiente. Alzi gli occhi e mille piccole orbite bianche ti fissano da dietro le vetrine dei bar, bisbigliano. Acceleri, ma le loro pupille molli non ti si staccano di dosso. Dove vuoi scappare, se quel male ce l’hai dentro? Cattiva, sussurrano. Osservi le tue dita stringere i manubri per non perdere la presa. Se fossi davvero una cattiva madre lasceresti andare la carrozzina adesso, in mezzo alla strada, fra le auto in corsa. E non fai in tempo a finire di pensarlo che si spalancano gli occhi intorno a te, inorriditi, si allargano a finestre, si dilatano, grossi come intere palazzine. Corri e continui a spingere con forza. Cerchi di guardare in basso, verso le tue mani che sono verdi e non come le cime odorose dei pini: verdi come il veleno e la putrefazione, verdi come l’invidia.

Strattoni il portone dietro di te, infili le chiavi nella serratura.

Tac. La porta di casa si chiude, sganci la bambina dalle cinture del passeggino, la stringi più forte che puoi e ti lasci scivolare lungo lo stipite, fino al pavimento.

Singhiozzi in silenzio, ora piange anche lei e allora devi adoperarti per farla smettere, e le baci la fronte e le accarezzi la testa.

Tuo marito si affaccia dalla cucina, non sembra sorpreso di trovarti lì.

Si siede accanto a voi, e ti bacia la fronte e ti accarezza la testa, a sua volta. Restate a lungo sul pavimento, e tu riprendi fiato, cerchi le parole, molte sono tossiche, altre potenzialmente letali ma corri il rischio. Con le spalle incollate l’uno all’altro, cercate un riparo dalla notte che calando scolorisce le fronde alte dei pini del viale, col loro destino incerto. Qualcuno sarà abbattuto, qualcuno sarà trapiantato, altri resteranno al loro posto, continuando a crescere.