La bambola madre

di Sara Mazzini

La vecchia ha inclinato la testa e si è messa su una gamba sola: l’ultima volta, la zia al piano di sopra è caduta dal letto con un tonfo che ha fatto tremare i lampadari del salotto. Sette minuti dopo il suo cervello era già collassato; sette minuti, il tempo che è occorso a mia madre per alzarsi dalla poltrona, cercare la chiave nel cassetto delle sigarette, salire le scale e raggiungere mia zia soltanto per vedere la sua ultima ragione che le usciva via dagli occhi. Fin qui, niente di speciale. Mia madre dice sempre che la gente aspetta lei per andare all’altro mondo.

Adesso siamo sole: ma che differenza fa? Lei dice che lo siamo sempre state.

Siamo al centro di tutta la faccenda, ed è tempo che cominci a prepararmi.

«Posso fidarmi a lasciarti qui?», le chiedo.

Lei soffia in mezzo ai denti una risposta che resta appesa nell’aria.

Ho conservato una copia della chiave, per non dover suonare il campanello. Josh starà certamente dormendo.

«Chi è?»

Sono io, mamma.

«Oddio, che spavento».

Non sono riuscita a chiamarti.

«Non sei più in grado di comporre un numero?»

Hai il telefono staccato.

«Sai che lo spengo sempre quando non lo uso».

E come pensi che qualcuno sia in grado di raggiungerti?

«Bah», schiaccia il mozzicone dentro il posacenere, «resta il fatto che non ci si presenta in casa della gente a quest’ora della notte».

Sono appena le sette.

Mi dirigo verso la dispensa e inizio a frugare tra le confezioni dei medicinali.

«Che c’è, hai mal di testa?»

Cristo, mamma, non ti si può proprio nascondere niente.

«Prendi un’aspirina».

E cosa credi che stia cercando?

«Come faccio a saperlo? Arrivi qui senza annunciarti e cominci a mettere le mani dappertutto».

Scusami tanto se questa è ancora casa mia.

«Per poter chiamare un posto casa si suppone che uno debba viverci dentro».

Ti prego, mamma, non ricominciamo.

Si accende un’altra sigaretta.         

Sono un viaggiatore. Per essere un viaggiatore non occorre avere in tasca un biglietto stropicciato e svegliarsi in stazioni di cui non sai leggere il nome. Io viaggio dentro alle persone. Porto sempre uno zaino con me, perché se viaggi dentro alle persone non sai mai quanto a lungo deciderai di trattenerti.

Non è mia abitudine fermarmi a chiacchierare con uno sconosciuto, dico al tizio che si chiama Salvatore. A meno che non sia lui ad agganciarmi.

Lui si produce in un largo sorriso.

«Be’», dice. «Ioti ho agganciata».

Salvatore ventun anni e l’entropica conoscenza del mondo di chi ama ascoltare i racconti degli altri

viaggiatori. Lui la chiama cultura.

«Non pensare che voglia provarci con te, eh». Distoglie lo sguardo dall’ultimo treno e poi aggiunge: «Mi piace scoprire le persone, tutto qui».

Sta giocherellando con una specie di accendino, producendone scintille. Si accorge che lo sto fissando perché all’improvviso mi parla di quell’accendino. Dice che il nome corretto è “acciarino” e che lo usavano i soldati sui campi di battaglia.

Mi dice: «Ne ho un altro, se lo vuoi».

Gli rispondo che non saprei che farmene. Mica devo partire per la guerra, io.

L’orologio appeso in mezzo alla stazione mi informa che Salvatore e io ci conosciamo da sette minuti. Ci sono persone che ho conosciuto per tutta una vita, e di loro so molte meno cose di quante non sappia adesso di lui.

Salvatore sa di me che mi chiamo Madena e che sono più vecchia di quello che sembro. Gli ho offerto una Marlboro e dunque presume che sia solita fumare Marlboro. La verità è che al distributore automatico non ho trovato la mia marca abituale e così ho comprato quella; ma l’orologio appeso in mezzo alla stazione mi informa che ci conosceremo ancora per pochi minuti, Salvatore e io, e non vale la pena di sprecare del tempo a discutere di marche di tabacco. Che pensi, Salvatore, che sono una fumatrice di Marlboro. Che non ho paura del cancro, così come non mi frega di nuocere al mio bambino.

Il mio treno sta arrivando, gli dico.

Salvatore mi tende una mano e ha un’aria delusa quando gliela stringo. Gli dico che ho cambiato idea, e che vorrei uno dei suoi acciarini.

Non è per me. È per mio fratello.

In casa di mia madre tutto è immerso nel silenzio. Mi fermo davanti alla porta della mia vecchia stanza per dare un’occhiata al suo interno, nella penombra accesa dai riflessi della luna piena. Josh è già al sicuro dentro il letto, e il suo respiro regolare culla sogni di bambino. Penso alla scusa che potrei usare per svegliarlo e tormentarlo, e invece mi limito a posare l’acciarino sul suo comodino.

«Sai», mi dice Josh, «ho visto un video su Youtube con un tizio che dice che c’è un fungo che cresce sugli alberi e funziona come conduttore. Un conduttore è una cosa che permette di accendere un fuoco. Bisogna sempre usare un conduttore, se no il fuoco non si accende. Se non c’è il fungo si può usare anche lo spago da cucina. Anche perché il fungo non so dove trovarlo».

Poi nota l’espressione sul mio viso e chiede: «Che c’è?»

Non dovresti giocare con quella roba.

«Ma sei tu che me l’hai regalato».

Gli strappo dalle mani l’acciarino e il gomitolo di spago e li getto nel primo posto che mi capita a tiro, dove so che il mio schizzinoso fratellino non andrebbe mai a rovistare: sul mucchio dei panni sporchi appena fuori dalla porta.

Mi chiede: «Ma allora perché me lo hai dato?»

Non sempre c’è un motivo se le persone fanno quello che fanno.

Poi gli dico che dobbiamo fare il bagno.

È un cretino, Josh, ci casca tutte le volte.

«Lo vado a dire alla mamma», piagnucola il cretino col sapone dentro agli occhi.

Gli dico che devo lavargli via dagli occhi le cose brutte che ha visto. Che deve tenerli aperti, altrimenti non funziona.

«Lo dico alla mamma, e lei ti metterà in punizione», piagnucola Josh.

Se pensi che ti ascolterà.

Ora Josh ha gli occhi stretti che gli fanno quelle pieghe come ai vecchi, e nelle pieghe c’è la schiuma del sapone. Cerca di sciacquarsi via il sapone prendendo manciate dall’acqua della vasca: non vede che anche quella fa la schiuma, che sta lavando via il sapone col sapone.

Rovescio sulla spugna ancora un po’ di bagnoschiuma e immergo la spugna in mezzo alle gambe.

«Non mi piace che non ti posso vedere», strilla il cretino sforzandosi di rialzare le palpebre. «Che cosa stai facendo?»

Gli dico che adesso dobbiamo lavare via le cose brutte che ha detto.

Stavolta capisce e vuole uscire dalla vasca, ma appena prova ad alzarsi scivola e ricade giù nell’acqua. L’acqua schizza fuori allagando il pavimento.

Josh ha sbattuto il sedere, e prende a massaggiarsi e a guaire come un cane. Ha la faccia tutta gonfia per lo sforzo, e ora inizia a piangere sul serio.

Quando la mamma vedrà il casino che hai fatto non sarà mica contenta.

Ma lui grida: «È colpa tua», e le lacrime gli bruciano negli occhi. «Lo dico alla mamma», grida, «e lei ti metterà in punizione».

Sono già in punizione, scemo.

«Ti metterà in punizione più punizione ancora».

Gli stringo il naso con le dita e lui di riflesso spalanca la bocca. Gli caccio in bocca la spugna cercando di arrivare fino in fondo alla gola e gli strofino la lingua con la parte abrasiva, finché ai lati della bocca vedo scivolare il sangue.

Il cretino comincia a saltare fuori e dentro l’acqua, cercando di colpirmi con le braccia. Gli dico che deve stare fermo, altrimenti non funziona.

Sul vetro smerigliato della porta vedo una sagoma animalesca che cerca di entrare.

Josh approfitta della mia distrazione per serrare la mascella, stringendomi le dita in mezzo ai denti. Ritraggo la mano con tutta la spugna mentre davanti a me, tra le mie gambe, mio fratello comincia a vomitare nella vasca. Sta vomitando bagnoschiuma, succhi gastrici e il sangue che gli sgorga dalla lingua.

Sorrido, soddisfatta. Fintanto che il sangue non esce, le pulizie non sono complete.

Da quando Loki se ne è andato, ogni giorno mi sveglio con l’anima in fiamme. L’amore è un incendio, diceva una vecchia canzone. Mia madre, ormai un tutt’uno con la sua poltrona, le fa eco ripetendo che gli uomini nella nostra famiglia non resistono a lungo: in un modo o nell’altro, li facciamo tutti fuori. Streghe, dice: siamo una specie di streghe. E il destino delle streghe è quello di bruciare.

Mi rotolo sul divano, cercando di placare gli spasmi del mio ventre, finché mi rendo conto che ciò che mi ha svegliato è l’improvvisa interruzione del respiro di mia madre. Per le prime tre notti non sono riuscita a dormire, disturbata dalle cromature di quel fiato disumano, finché ho finito con l’abituarmici; e quello che adesso mi sveglia è l’impressione di non udirlo più.

Salto giù dal divano.

Mamma, chiamo piano, portandomi davanti alla sua faccia.

Si risveglia con uno scossone, e il suo viso riprende le naturali sfaccettature di grigio e di ciano.

La vecchia compare ogni sera in fondo al corridoio, vicino al portone. Questo lo so perché me lo ha detto mia madre. È lei che la vede, ogni sera, mentre siede nella sua poltrona davanti alla televisione. Fissa mia madre, che siede in poltrona a guardare la televisione. Non dice mai niente: e mia madre non le parla, temendo che lei le risponda.

«Hai visto?», dice Josh, con la voce impastata dal pianto; al centro, una nota di trionfo. «Te l’ho detto che la mamma ti metteva in punizione».

Alzo il viso dal cuscino e sento passare un aereo.  Chiudo gli occhi e trattengo il respiro. Ogni volta che un aereo passa sopra questa casa spero sempre che ci cada sulla testa.

«Un giorno sarò anch’io un aviatore coraggioso», dice Josh. «Proprio come papà. E tu mi dovrai rispettare».

Non sarai mai come papà.

Buio. Cerca di trovare un nome per la sensazione del buio che arriva. Un attimo prima scorgi due rondini intente a rintanarsi sotto i tetti delle case, e quando ti volti di nuovo il buio si è ingoiato la finestra.

Il buio mi spaventa ancora. I grandi, questa cosa, non sembrano capirla. A volte mi domando di cosa hanno paura loro. Degli ospedali, credo. Qualche anno fa la mamma ha passato un sacco di giorni in ospedale. Al suo ritorno era invecchiata, e aveva così male che non riusciva a stare in piedi troppo a lungo; se era costretta a farlo doveva alternare le gambe, piegando la testa su un lato per tenersi in equilibrio. Mi disse che aveva avuto un attacco di appendicite, e poi mi spiegò cos’è l’appendicite. È quando hai un brutto mal di pancia e i dottori te ne tolgono un pezzetto. Non ho mai detto alla mamma che io so che quel pezzetto di pancia che i dottori le hanno tolto era mio fratello Josh.

Nella stanza d’ospedale che è stata assegnata a mia madre ci sono altre donne malate coi rispettivi parenti. Sette letti in tutto. Le donne nei letti stanno in silenzio a fissare le chiome degli alberi scosse dal vento, quando riescono a intuirle tra le veneziane bianche, tutto bianco; e al loro fianco si agitano i figli, le figlie, i mariti, le sorelle: scattano su dalle seggiole per reclamare l’intervento di medici e infermiere, aggiustare cuscini, versare acqua fresca nei bicchieri; cercando di rendersi utili in tutti quei modi che vengono inutili ai pazienti le cui pene vorrebbero alleviare.

Diversamente vanno le cose accanto al letto di mia madre, dove Josh si limita a osservare il macchinario che pompa l’ossigeno al respiratore, e quando mi vede va subito al dunque: «Perché c’è dentro l’acqua e fa glu glu

Nonostante il suono del gorgogliatore che umidifica l’ossigeno diretto verso il viso di mia madre, in casa permane il silenzio. Affogo in una tazza di caffè e non riesco a mandare giù niente che si debba masticare. So che dovrei mangiare, tenermi in forze per il momento in cui soppianterò mia madre; ma non ho fame, e non ho più neanche la spinta a fare scorta di energie che avevo fino a qualche giorno fa. Ho visto il sangue macchiare i miei slip, sento le sue lingue calde lungo le mie gambe: ormai è innegabile che in me non c’è alcun figlio da nutrire.

«Perché non ti droghi, come fanno tutti quanti», chiede Josh dal suo lettino, «e a me mi lasci in pace?»

La droga è cattiva.

«Anche tu sei cattiva».

E tu, gli dico al cretino, non sei mai esistito.

Mi sono fatta il letto sul divano per stare sempre vicino a mia madre, che adesso riesce appena ad alzarsi dalla sua poltrona quando ha necessità di andare in bagno. Lungo il tragitto deve fermarsi a riprendere fiato; così ho posizionato alcune sedie attraverso il salotto, in modo che possa sedersi finché non è pronta per proseguire oltre. Quando arriva alla porta del bagno, nove volte su dieci se l’è fatta addosso.

La televisione è accesa sul canale musicale. Mentre attraverso il salotto con la cesta dei vestiti da lavare, la sagoma comparsa sullo schermo sembra chiedermi attenzione. Poso la cesta e mi avvicino per alzare il volume. Alle mie spalle mia madre rantola qualcosa che non riesco a interpretare. Punta un dito in direzione della figura nel televisore, e una specie di risata le si schianta nella gola.  È Loki. Il mio Loki. Il mio Loki in un videomusicale. Loki che canta in un video musicale.

La canzone ha un sound rubato agli anni Ottanta ma è mixata come un moderno brano hard rock. È l’ennesima interpretazione di Word up, ma sarò in grado di capirlo soltanto più tardi. Adesso sono troppo concentrata su di lui, se ancora di lui si può parlare. A dispetto degli abiti neri, appare decisamente ingrassato; o forse è soltanto più morbido di come io lo ricordavo. Ha legato i capelli in un codino impomatato sulla sommità del capo. I suoi occhi bordati di kajal hanno una fissità capace di slegarli da ogni muscolo facciale. Dietro di lui un gruppo di persone dai vestiti colorati si rimescola in una frenetica danza acrobatica. Loki canta muovendo solo il minimo indispensabile delle sue labbra e del suo corpo in generale, quasi come se temesse di smontarsi. Tiene un braccio sul fianco, per meglio protendersi verso lo schermo, e da questa posizione sarebbe impossibile ignorare il modo in cui riempie la maglietta. Non riesco a smettere di fissare le sue tette, tonde come due meloni, dritte, perfette, e più grandi perfino delle mie.

Quando mi volto trovo la poltrona vuota. Mia madre ha staccato il respiratore e si è spostata sulla prima delle sedie che segnano il percorso verso il bagno, da cui in qualche modo è riuscita ad aprire il cassetto delle sigarette.

Sono queste che cerchi?, le chiedo sventolandole il suo ultimo pacchetto sotto il naso. Sicura che quel momento sarebbe arrivato, lo avevo nascosto nella tasca dei calzoni. Gli accendisigari, invece, li ho regalati all’ambulante africano che chiedeva due monete in cambio di una scatoletta di fiammiferi.

Sfilo le sigarette dal pacchetto e le dispongo sul tavolo davanti agli occhi fissi di mia madre. Lei osserva sconsolata quell’inutile tesoro, orfano com’è del suo complemento indispensabile: il fuoco.

Se riesci ad accenderle, le dico, sono tutte per te.

Non so perché le dico questo. Non è niente di ciò che vorrei dirle veramente.

Vorrei dirle che so cosa sta cercando di fare, e che vorrei tanto poterla aiutare. Vorrei dirle che conosco il tizio dentro la televisione, che si chiama Loki e che mi ha bruciato il cuore; ma per qualche ragione la cosa non suona credibile neanche a me stessa.

E allora la guardo strozzarsi in un tentativo di pianto, e mi sento mossa a compassione. Mi siedo accanto a lei per prendere il suo capo tra le mani e posarlo sul mio ventre. Lei si fa guidare piano, ansando, e presto sento il suo respiro acuminato farsi strada dentro me. Nel luogo del mio corpo da cui avrei dovuto lasciare uscire un figlio, finisco con l’accogliere una madre.

Ci risveglia il campanello.

È lei?, sussurra mia madre.

«Lei chi?»

 La vecchia.

«La vecchia non c’è più, mamma. Ci sono io, adesso».

Si scuote quel pensiero dalla testa e mi fa cenno di aprire la porta. Un altro cenno serve a dire che non vuole più tornare alla poltrona: sta più comoda sulla sedia, da cui vede meglio la televisione; a patto però che sposti un po’ la cesta dei panni da lavare. Obbedisco, e in mezzo ai cenci un luccichìo metallico riflette per un attimo un fascio di luce. Mia madre ne sembra turbata, ma si calma quando poso la cesta al fianco del televisore. Mi chiede poi di condurle la bombola per ricollegarle il respiratore alla faccia.

Apro la porta ma fuori non trovo nessuno; soltanto un vento caldo che sta insabbiando l’aria. Penso, che razza di scherzo, ma qualcosa mi trattiene prima che possa rientrare. Inizia con uno squittìo irriverente e finisce con il guizzo di una coda che sparisce dietro l’angolo, troppo veloce perché possa capire a chi appartiene. Eppure non ho dubbi che si tratti di lei, la scimmietta. Quella stronza che mi ha ucciso quando avevo dieci anni, spaccandomi la testa con una noce di cocco nel giardino di mia nonna. Sono anni che attendo di incontrarla. Devo acchiapparla, o anche solo riuscire a vederla. Ho bisogno che mi dica cosa ne è stato davvero di me. Infilo le scarpe e mi lancio sulla strada. So che lei mi sta aspettando. Posso sentire il suo odore nell’aria. Siamo così vicine che quasi avverto il cuore staccarmisi dal petto nell’assoluta certezza che il mondo sia sul punto di cambiare direzione. Ma quando giro l’angolo mi accorgo che della scimmietta non c’è alcuna traccia. Quella stronza, penso, me l’ha fatta un’altra volta. Mi abbandono contro un muro per recuperare fiato; e ho appena il tempo di voltarmi, mentre la casa di mia madre esplode.