di Flavia Cidonio

C’è un momento della vita in cui la foto che stai scattando sarà quella che useranno per la tua lapide.
Sarà un’immagine nitida e bella, probabilmente ti vedrai un po’ diversa dal solito. Come se il lato destro fosse diventato il sinistro o viceversa, ma quel che conta è che per una volta ti vedrai bene: il punto è questo. La sensazione impercettibile di esattezza non ha niente a che fare con la tua immagine. Si tratta solo di un presentimento, che si mescolerà alla miriade di impressioni e giusti suggerimenti ricevuti dalla realtà circostante; si perderà in un mare di nulla ed è meglio così. Questa idea ha cominciato a farsi strada in me pochi giorni dopo il mio ingresso nella casa della sorella di mia madre. Quando ho varcato la soglia mi aspettava in soggiorno, avevo con me un paio di valige e uno zaino. Sarei tornata a casa per prendere le mie cose un poco alla volta. Mi ha sorriso, osservata per un lungo momento e poi non ha mosso un dito per aiutarmi. Nel paese dove viveva mia zia non aveva un nome. Da piccola nemmeno io lo conoscevo, perché mia madre non mi ha mai parlato di lei, né altri mi hanno mai detto che avessi una zia che abitava a pochi chilometri di distanza. Quando la seguivo nelle sue commissioni osservavo meravigliata come tutti davano l’impressione di trovarsi in presenza di un fantasma: evitavano i suoi occhi come bruciassero. Anche un forestiero imparava presto che in cima, dopo la chiesa, abitava una donna bizzarra. Non andava importunata ed era meglio non fare troppe domande su di lei. Per questo forse qui su non ne passavano mai molti. Gli abitanti del paese non mi avevano riservato lo stesso trattamento quando avevo cominciato a stare lì. Io un nome lo avevo: Celestina. Ero l’unica figlia di Giuditta e Vittorio, entrambi insegnanti. Avevo un nome e una coltre grigia di sventura che rendeva il mio volto degno di compassione perpetua e questo mi faceva innervosire molto. Avevo perso così presto i miei genitori ed ero finita proprio nelle mani di quella donna lì. Ma non c’era nessun altro che si sarebbe potuto prendere cura di me? Non c’era nessuno, ma nel corso della mia adolescenza molti avrebbero voluto provarci. Le mie maestre, per esempio. Dietro la riluttanza a obbedire leggevano solo la rabbia per quel che mi era accaduto. Celestina non è cattiva, è solo sfortunata. Nessuno ha mai compreso che è proprio questo che mi rendeva irascibile: la pena che leggevo nei loro gesti. Combinare piccoli dispetti fu la prima forma di potere con cui entrai in contatto. Furti di poco conto, rompere oggetti, gridare al fuoco quando non era successo nulla. Quel che preferivo però era prendermi sottilmente gioco delle persone. Non avevo capito che la ruota non avrebbe mai completato il suo giro. Cercavo una punizione che mi rendesse come chiunque altro, loro invece continuavano a nutrire la mia diversità. Dopo i primi giorni di silenzio e spaesamento avevo provato i dispetti su mia zia. Da qualche giorno tenevo sott’occhio la bottiglia da cui beveva un sorso ogni sera prima di addormentarsi, credevo fosse liquore. Rovesciai l’intero contenuto dentro l’elegante borsa nera che teneva in camera da letto. Non fu necessario attendere molto. Non appena la incrociai in corridoio alzò lo sguardo verso di me e mi squadrò da capo a piedi. Quindi dopo una breve esitazione mi tirò un ceffone.
«Hai bisogno che qualcuno ti guardi? Fatti guardare bene allora».
Per cena preparò tre diverse portate e un dolce e apparecchiò senza domandarmi di muovere un dito. Parlò molto più del solito. Molto più del solito significava comunque poco per gli standard di chiunque viva in casa con un’altra persona. Osservando i suoi grandi occhi neri perpetuamente assorti avevo la sensazione che si trovasse alle prese con un rompicapo triste, da cui dipendeva il suo futuro. Ma la naturale economia dei gesti e delle esternazioni spontanee non le consentiva di parlare apertamente così come forse avrebbe voluto. Prima di sparecchiare si chinò verso di me, quasi in ginocchio, e mi pettinò con dolcezza inesperta i capelli. «Non prenderti gioco di chi ti ama, Celeste. Chiedi apertamente quando desideri qualcosa». Bastò questo per farmi desistere, almeno nei suoi confronti: sentivo che avevamo in comune qualcosa di prezioso. Quando uscivo di casa per andare a scuola era in giro già da ore. Si svegliava quando era ancora buio, passava diverso tempo in bagno per prepararsi con cura. Già i primi giorni lì a casa potevo distinguere i rumori attutiti al di là della parete, l’acqua che scorreva piano dentro la tinozza. Forse lo faceva per non svegliarmi. Mi preparavo una colazione veloce e quando salivo in bagno per sciacquarmi l’aria era ancora densa dei profumi che usava. Ogni tanto me ne spruzzavo poche gocce dietro al collo o nell’incavo del gomito. Quando ero a scuola più tardi mi annusavo: non era mai lo stesso odore così intenso e ammaliante che sentivo da lontano quando ero in casa. Pareva più un vomito dolciastro. Un giorno le chiesi di cosa si occupasse e fu lieta di raccontarmelo. Parlò di alcuni terreni poco distanti, dove un massaro gestiva per lei una piccola azienda agricola. Diversi braccianti, principalmente famiglie, lavoravano sulla sua terra. C’era anche un piccolo frutteto che le dava molta soddisfazione negli ultimi tempi. Mio nonno aveva cominciato da lì e poi, poco a poco, anche grazie all’aiuto di mia zia aveva esteso l’attività.
Ci stupimmo entrambe: lei che io non sapessi nulla e io dell’intera esistenza di questo lato della sua vita. Col tempo compresi che mia mamma poteva mantenermi così bene anche grazie ai soldi che sua sorella le inviava periodicamente. Mi raccontò con cura cosa coltivassero, in che periodo dell’anno si trovasse il raccolto. Cosa bisognasse preparare per la stagione seguente. Avevo la sensazione che nascondesse qualcosa e cercasse attraverso le parole – senza dubbio di sincero amore per quella creatura multiforme – un modo per ricoprire questo segreto. Per esempio per quanto mia zia potesse aver cura dei suoi affari non mi era chiaro perché dovesse trovarsi materialmente lì ogni giorno dal momento che aveva una persona di fiducia sul posto. Pensai di tenerla d’occhio con più attenzione ma era un compito arduo se si aveva a che fare con lei, dal momento che la riservatezza era la sua qualità più evidente. Un giorno semplicemente decisi di seguirla. A scuola in quelle settimane avevo litigato con le mie amiche che avevano scelto di non rivolgermi la parola. Il diverbio era nato da una sciocchezza: cominciavano tutte a osservare i maschi della nostra scuola con occhi diversi e ognuna di loro ben presto aveva trovato il centro del proprio interesse. Era accaduto all’improvviso, nell’arco di pochi giorni. La mia migliore amica aveva cominciato a descriverci come le sembrasse simpatico il figlio del farmacista. E da lì tutte l’avevano seguita a ruota, scegliendo ognuna qualcuno a cui dedicare attenzioni e racconti sospirosi. Sentivo di non poter partecipare a un gioco divertente ma non riuscivo a comprenderne la ragione. Così iniziai a prenderle in giro a mio modo e se inizialmente non ci fecero caso con il passare dei giorni il mio comportamento diventò quasi sospetto. «Perché non ti piace nessun ragazzo?» mi chiese davanti a tutte una mia amica. Restai in silenzio.
A dire la verità non avevo neppure considerato l’eventualità che un giorno sarebbe stato bene pensarci. L’attenzione più viva era tutta per le donne che avevo di fronte. Giocavo spesso con i ragazzi, ero forse la sola a farci la lotta ma perfino questo contatto fisico non provocava in me alcuna emozione. Così per la prima volta diventai io stessa l’oggetto di uno scherzo crudele. Un pomeriggio due nostri compagni di classe giocavano a fare scommesse. Con le ragazze li ascoltavamo da lontano in attesa del ritorno in aula, quando una di noi li raggiunse per sussurrare loro qualcosa. Ci si avvicinarono e il più piccolo si voltò verso l’altro: «stai a guardare». Accadde molto velocemente, ma ricordo con precisione. Mi prese il volto fra le mani e stampò un bacio umido e screpolato sulle mie labbra. Fui così scioccata che quando l’altro stava per reclamare il suo turno gli mollai uno schiaffo dritto in faccia che gli fece volare via gli occhiali e uscire un po’ di sangue dal naso. Le maestre per una volta non seppero trovare giustificazioni e non mi stettero neppure a sentire quando cercai di spiegare cosa era successo poco prima. Per qualche giorno non rivolsi la parola a nessuno e nessuno la rivolse a me. Era come vivere dentro il mio corpo e allo stesso tempo trovarmi a chilometri di distanza. Una mattina decisi di reagire. Scivolai pian piano giù dal mio letto, mi vestii in silenzio e rimasi accanto alla porta chiusa della mia camera da letto in attesa di sentire il tonfo di quella all’ingresso.
Scesi velocemente le scale, attesi nascosta che la sua auto sbucasse fuori dal vialetto.
Mia zia era la sola donna in paese a guidare la macchina, forse la sola che avevo mai visto allora. Portava la sua berlina nera con scioltezza e agilità. La persi di vista ben presto. Ma appena al di là di casa nostra la sola direzione era una lunga strada provinciale dritta e costeggiata su entrambi i lati da alcuni alberi. Non mi fu difficile seguire il solo percorso disponibile, avendo cura di camminare protetta. Riconobbi la traccia dei suoi pneumatici lungo un terreno più fangoso che virava a sinistra e da lì mi avventurai. La fatica fisica non mi aveva mai stancato, le mie gambe sembravano vivere per conto loro. Ed ero ancora carica di aggressività per quanto mi era accaduto pochi giorni prima.
Da lontano riuscii a vedere ben poco, o meglio nulla che mi sembrò importante. Diversi uomini erano al lavoro nei campi, alcuni poco distanti da un gruppo di piccole case in pietra stavano riempiendo delle cassette colme di pomodori. A turno dei ragazzi più giovani le caricavano in un piccolo deposito aperto antistante. Mi era sempre più difficile valutare cosa potesse fare di utile lì in mezzo mia zia, sempre vestita di tutto punto. D’altro canto in giro non ce n’era traccia.
La sua proprietà – o meglio, quella della nostra famiglia – mi sembrò molto simile a come l’avevo immaginata. Eppure vederla viva e in fermento, a dispetto di quanto avevo creduto quando ne avevamo parlato, non provocava in me alcun tipo di reazione. Pensai di appisolarmi da qualche parte, attendere l’ora di pranzo e quindi tornare con calma prima che rientrasse mia zia. Mi ricordai del frutteto, che da come l’aveva descritto sembrava un posto perfetto per riposare indisturbatamente all’ombra. Allora seguii le tracce dei passi lungo la terra, augurandomi fossero quelle che avrebbero potuto condurmi fin lì. In lontananza distinsi le cime di alberi diversi da quelli incontrati fino a quel momento: ero sulla strada giusta. Mia zia era proprio lì, seduta su una panca di legno. Era di spalle, mi sembrò stesse leggendo.
Da una casupola di legno poco più in là uscì una ragazza bionda con i capelli raccolti.
Aveva solo una specie di vestaglia lisa addosso ma un volto gentile e molto bello. Si avvicinò a mia zia con un vassoio dove c’erano due tazzine e dei biscotti che poggiò su una sedia lì accanto dove credevo si sarebbe seduta. Sorrise a mia zia, le chiuse il libro e sollevò la vestaglia fino al ventre mostrando che al di sotto non indossava nulla. Si sistemò sulle gambe di mia zia, ridendo piano. Le loro bocche si mescolarono per un momento che mi sembrò durasse in eterno. Fui sorpresa al punto che dimenticai di essere in piena vista. Sarebbe bastato sollevassero gli occhi per vedermi. Ma erano così assorte che nessuna delle due si accorse di nulla. Mia zia le baciava il seno, l’altra donna sospirava chiudendo gli occhi. Non avrei mai nemmeno potuto immaginare nulla di simile. Rimasi lì tutto il tempo senza alcuna vergogna.
D’un tratto la giovane rientrò velocemente in casa, riallacciandosi la vestaglia. Mia zia da lontano aveva visto un uomo della sua tenuta camminare verso di loro. Lei al contrario si mosse con calma e sicurezza, lo aspettava con le mani sui fianchi. Si salutarono da lontano. Sentivo di dovermene andare, ma il comportamento dell’uomo mi incuriosì. Si rivolgeva a mia zia come se la temesse e allo stesso tempo cercasse di sovrastarla. Poggiava il peso del corpo da un piede all’altro, trattenendo il nervosismo. Potevo presumere parlassero del più e del meno, mia zia era tranquilla. Prima di andarsene però l’uomo lanciò un’occhiata alla casupola e disse qualcosa che non riuscii a distinguere. Lei non rispose nulla ma non abbassò lo sguardo. Lo tenne d’occhio a lungo mentre si allontanava finché lui non voltò l’angolo. A quel punto raccolse il libro, il vassoio e rientrò in casa. Con il cuore in gola mi diressi verso l’auto e attesi qualche momento sperando decidesse di tornare. E così fu: quando mi vide da lontano allentò il passo; sorrideva quieta.
«Andiamo via da qui», entrammo in macchina dirette a casa. Nessuna delle due parlò di quanto era accaduto. Lo liquidammo già a cena, limitandoci a commentare come avessi trovato bello quel posto. Non mi disse, come immaginai, che potevo tornare quando volevo: ma solo che se desideravo poteva presentarmi il massaro in futuro. Era lui a occuparsi di tutto lì.
Bevve il suo vino d’un fiato, come non l’avevo mai vista fare. Non ricordo per quale ragione le domandai se il massaro avesse una moglie. La zia evitò accuratamente il mio sguardo. Mi chiese perché avevo litigato con le mie amiche, con mia grande sorpresa. Aggiunse che la voce era arrivata fino alla fattoria, avevo fatto piuttosto male a quel ragazzino. In quel gioco dove entrambe evitavamo le domande manifeste per rispondere apertamente a quelle che non avevamo il coraggio di porre con chiarezza, le chiesi perché nessuno la chiamasse mai per nome.
«Nessuno chiama neppure te come vorresti, Celeste», sorrise e si alzò per sparecchiare.
«Tutti usano il diminutivo. Ti minimizzano perché altrimenti non saprebbero contenerti».
Mi scompigliò con dolcezza i capelli. Avevo capito.