di Alice Scuderi
“Mamma! Mamma! Mamma!” ripetuto più volte e con intonazioni differenti.
Aggiungiamo le braccia tese verso l’alto, i piedini che sbattono furiosi a terra: “Mamma!”. Ora sei arrabbiata, perché non sto facendo quello che vuoi tu. “Mamma!” ripeti, quasi scocciata, se potessi esserlo coscientemente. “Ma non mi senti?”.
Quanto può essere bella una parola, e fastidiosa, occludente, dolce, straziante, melodiosa, frustrante, tenera, dispettosa, appagante?
Mi cerchi, ti attacchi alla mia gamba, al mio collo, con la forza di un bisogno difficile da comprendere per me. Sei pesante, ma di un peso che rende le cose reali, una gravità aggiuntiva che appesantisce il mio centro e mi avvicina a quello della terra.
E quante volte vorrei invece saltare un po’ più in là, e sentirmi di nuovo leggera.
“Mamma”, mi dici tu, perché di quella leggerezza non puoi sapere nulla, le tue ore sono fatte di presente, dietro di te c’è solo il ricordo opaco di uno sciabordio uterino, e la mia voce, sempre la mia voce.
Quindi tu non sei me, ma ti muovi insieme alla mia ombra ed io ti sento intorno come una musica persistente ma non ancora accordata. Ci stai provando, lentamente e con tenacia, a essere chi sei.
“Mamma!”, sì sono qui, non posso andare altrove, il tuo laccio ce l’ho stretto alla vita; a volte fa male, eppure so quanto fa sentire grandi, e quanto fa paura questo nodo.
Alcune vivono per questo legame, e al di fuori si sentono perse, svuotate.
Io invece a volte ci piango per quanto è stretto. Perché a volte non mi dai il tempo di pensare, di respirare, e faccio tutto in apnea, mi chiedo dove sono finita, come mi chiamo. Allora tu dici, guardandomi dritta negli occhi, “Mamma”, e mi vien da ridere.
Forse sta tutto qui, nel ridere e nel piangere, nelle urla ingoiate e in quelle vomitate fuori, che ti cadono addosso senza lasciare alcun segno. Lo lasciano solo a me, il taglio rosso del senso di colpa, ne ho il corpo pieno e penso sia solamente l’inizio.
Ma non posso pensare al dopo, anch’io adesso vivo solo in quest’ora: hai preso il mio tempo, tra le mani, come un gioco, e ne fai stelle filanti e coriandoli, bagnati di saliva con l’odore puro delle cose innocenti. Sto imparando anch’io come te a essere un oggetto nuovo.
“Mamma!” mi abbracci; per quanto siano piccole le tue braccia, riesco a starci tutta dentro.
Sì, è bello essere il mondo di qualcuno. Io però voglio insegnarti a trovare il tuo di pianeta, in cui poter correre, saltare, arrampicarti sulle sedie senza più temere i miei no, mangiare con le mani e diventare grande. Guarderemo orizzonti diversi, ma il sole sarà lo stesso, per me e per te.
E alla fine lo so che ti girerò intorno come un satellite: cercherò di mantenere un’orbita larga, ma la tua gravità mi attirerà sempre.
Così, dopo il tuo “Mamma”, arriverà il mio insistente, affettuoso, irritante, malinconico “Figlia”.