Pubblicato in: Staffetta letteraria

La scrittrice cieca. Un pezzo per #lastaffettadidonnedifettose

di Laura Bucciarelli

Se cerchiamo informazioni sul romanzo di cui intendo parlare, troviamo invariabilmente il suo incipit accecante che qui evito di citare, visto che lo si può leggere dappertutto.

Per quale motivo?

Perché la frase di apertura è un inganno, è l’inganno che ci lascia immediatamente in balia del racconto.

Il romanzo declina poi in direzione di almeno quattro piani narrativi: le memorie scritte da una protagonista ultraottantenne, il romanzo scritto da sua sorella, che a sua volta contiene un racconto di fantascienza narrato dal suo amante, e infine una serie di articoli di cronaca che testimoniano il clima del momento.

Siamo in Canada, a partire dagli anni ’10 del ‘900, attraversiamo la prima guerra mondiale, gli anni ’30, la seconda guerra mondiale, il dopoguerra e ci avviciniamo a tempi più recenti. Nel frattempo, siamo anche sul pianeta Zycron, luogo di riti apotropaici e sanguinari.

Si può parlare di saga familiare e di affresco storico, si parla de “L’assassino cieco” di Margaret Atwood.

Semplificando, direi che è la storia di due sorelle, Iris e Laura, ma forse è solo un’autobiografia.

Non è certo un’opera di nicchia, l’ho amata perché scrive di cose scritte e spinge a chiedersi se la scrittrice si presenti come abile ritrattista oppure come diabolica progettista di edifici narrativi.

Di punti di vista ce ne sono molti nel romanzo, si rischia di perdersi e invece non succede mai, quindi la domanda è legittima: chi è l’autrice? A quale compito assolve?

L’autrice ascolta e tramanda. È un canale di trasmissione che ci consente di accedere a un mondo complesso senza smarrimento.

L’idea di uno scrittore che è scritto, un tramite per la parola che viene da un altrove che non conosciamo, non è nuova.

Quando Rilke incontra le opere di Cezanne, se ne appassiona al punto di  dedicarvi un’intera corrispondenza con la moglie. Scrive: “Il pittore (come l’artista d’altronde) non dovrebbe giungere alla coscienza delle proprie intuizioni: senza prendere la via traversa della sua riflessione, i suoi progressi dovrebbero, a lui stesso enigmatici, entrare direttamente nel lavoro, tanto da non poterli riconoscere nell’attimo in cui essi vi fanno il loro transito.”

Cezanne sapeva dare un nome alla sua pittura, solo sceglieva di manifestarlo tramite il lavoro. Così la “scrittrice cieca” sa cosa sta facendo e di cosa sta scrivendo, solo sceglie di esprimere la propria conoscenza dando voce a ciò che parla attraverso di lei.

Il mondo evocato,  sarà poi composto dal lettore.

La presenza della Atwood si fa invece sentire in una lotta che la contraddistingue come autrice, cioè nella critica alla società patriarcale e alle sue violenze, più o meno taciute.

Come dice Iris descrivendo la foto della sorella sulla copertina del suo libro: “Il viso sembra indifferente: ha quella impenetrabilità vacua, imbarazzata di tutte le ragazze bene educate del tempo. Una tabula rasa, che non aspetta di scrivere ma di essere scritta.”

Eppure, nonostante questo e altri riferimenti a una visione decisamente femminista, la Atwood non ci fa entrare in sintonia con le protagoniste, le due donne rimangono sfuggenti, ingannevoli, non riusciamo ad amarle. Certamente non sono eroine e non è solo un dato storico a dircelo. Non è solo l’epoca in cui Iris e Laura vivono, non è solo la loro condizione sociale a raccontarci la loro reticenza. È la loro relazione. La loro cecità di fronte agli eventi.

Iris e Laura non suscitano empatia, semmai pena e rabbia, il che le rende umane, quindi solo parzialmente conoscibili.

In questo senso, torno a dire che la Atwood qui è una scrittrice cieca, non può vedere i suoi personaggi, ce li presenta solo attraverso i loro stessi racconti e non può dirci niente di più.

Anche se l’autrice sa, sa più di quello che dice, sicuramente più di noi, si lascia attraversare e ci consegna ciò che l’ha attraversata. Non descrive ma lascia descrivere. Non è una tabula rasa inconsapevole, come dice Iris di Laura, bensì si fa strumento consapevole per lasciarci memoria delle voci che sente.

Un’operazione molto diversa da quella che compie Iris scrivendo le proprie memorie. Con l’arma della sua età avanzata ad attenuare la manipolazione insista in qualsiasi racconto di sé, Iris desidera scrivere la verità che ha nascosto per troppo tempo e in questo modo restituisce dignità e senso al proprio percorso e a quello di sua sorella.

Di Laura in effetti conosciamo solo ricordi di altri, sappiamo come viene considerata, vista, pensata e solo da pochi tratti e pochi avvenimenti capiamo che è stata esposta alla violenza, duramente ferita e in qualche modo proiettata verso una liberazione che invece Iris riesce solo a vivere nella menzogna. Laura ha una purezza che Iris non ha, eppure viene chiamata difficile, ribelle, egocentrica mentre, al contrario, Iris viene investita del ruolo della brava bambina, tanto che non comprende perché la madre in punto di morte le debba chiedere di essere una buona sorella per Laura: perché mai non avrebbe potuto essere viceversa Laura una buona sorella per lei? Iris non vuole essere una buona sorella. Non vuole essere appiattita nei ruoli che le assegnano, sorella moglie, madre. Nel momento in cui racconta la morte della madre, osserva: “Che invenzioni sono, le madri. Spaventapasseri, bambole di cera su cui poter conficcare le nostre spille, rozzi diagrammi. Neghiamo loro un’esistenza propria, le costruiamo in modo che si adattino a noi – alle nostre bramosie, ai  nostri desideri, ai nostri difetti. Ora che lo sono stata anch’io, lo so.

Parlando di una condizione femminile priva di autodeterminazione, bloccata in un quadro di cui la donna non è autrice, la stessa Iris riuscirà solo a rubare ciò che desidera, a viverlo di nascosto per poi svelarne le tracce prima di morire.

Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? (…) Come minimo vogliamo un testimone.

Ecco, qualcuno che veda.

Perchè poi ci sia un assassino cieco, lo si scopre solo leggendo il romanzo.

Per quello che vale il mio punto di vista, la nostra cecità viene guarita dalle memorie, così come da ogni racconto.

Margaret Atwood, L’assassino cieco, Ponte alle Grazie, 2014

Rainer Maria Rilke, Lettere su Cezanne, Passigli, 2001

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