di Elena Ciurli
Il giornalismo è morto, il giornalismo è vivo.
In un contesto globale in cui la condivisione di informazioni in modo massivo appare ormai senza fine; in un luogo virtuale dove la citazione e la verifica delle fonti diventano pura utopia, esistono ancora professionisti che le notizie le scrivono davvero.
Maria Antonietta Schiavina è una di loro, e da brava giornalista, ha svelato a noi Donne Difettose la sua arte di raccontare gli altri.
Come sei diventata giornalista?
Ho iniziato a sedici anni a scrivere su settimanali dedicati ai giovani: Ciao Amici e Giovani, poi sono stata un anno a Santo Domingo a creare bozzetti pubblicitari per un dolcificio “La Dulcera dominicana”. Tornata indietro ho bussato alle porte di molti giornali, quotidiani e mensili per offrire la mia collaborazione. Il primo giornale che mi ha degnata è stato il quotidiano socialista “L’Avanti”: ho iniziato a collaborare scrivendo un’inchiesta sul razzismo e poi ho scritto su argomenti dedicati ai giovani (avevo 19 anni). Mi hanno poi offerto la collaborazione su settimanali femminili come “Amica”, “Eva” e sul familiare “Gente” e nel frattempo ero diventata una freelance di tutto rispetto, scrivendo per molti altri settimanali: Bella, Sale & Pepe, Confidenze eccetera. Infine nel 1978 la Rusconi, editore di Eva e Gente, mi ha chiesto di sostituire per 6 mesi una collega in maternità. Quei sei mesi sono stati prorogati (nel frattempo ho lavorato anche per l’ufficio stampa della casa editrice Ariston) e mi è stato fatto un contratto definitivo. Alla Rusconi sono rimasta dieci anni, lavorando anche per Gioia.

Poi me ne sono andata per maternità e sono venuta in Toscana, da dove ho continuato a collaborare sia per la Rusconi che per altre case editrici, mi hanno offerto una consulenza come autore Rai (scrivevo testi per il conduttore Pino Strabioli che aveva una rubrica a Uno mattina). Sono andata a Roma per un periodo per poi tornare a San Vincenzo e continuare a fare la mamma. Ho scritto due libri “Adesso lo pianto- come ammazzare il partner e sopravvivere” per Acanthus e “Diversi da chi – normali vite con handicap” per Mondadori. Ho iniziato parallelamente a collaborare al Tirreno e a un’agenzia che offriva articoli e interviste ai quotidiani del Nord.
Qual è stato il tuo percorso agli esordi?
Un percorso fatto di tanta gavetta (prima di firmare un pezzo ho corretto le bozze di tanti colleghi). Allora per diventare giornalista bisognava correre, correre, correre. E naturalmente saper scrivere e avere occhio per la notizia. Non c’era internet e quando sono venuta a San Vincenzo, nel 1986 funzionava solo il fax con cui mandavo i miei pezzi.
Qual è stata la prima intervista che hai fatto?
La prima intervista a un personaggio l’ho fatta a Giancarlo Giannini, giovane esordiente in Davide Copperfield. Poi ho intervistato Charles Aznavour per Gente cancellando completamente l’intervista nel registratore e scrivendola a braccio. disperata, ma con una buona memoria: al direttore di allora piacque molto.
Come hai conosciuto il grande Alberto Sordi e in che modo è nata l’idea del libro sulla sua vita?
L’ho incontrato dalla sua agente di allora (era il 1988) Maria Rhule, per fargli un’intervista che mi aveva commissionato il settimanale femminile Gioia, diretto dalla brava ma terribile Silvana Giacobini. Poi l’ho incontrato ancora per “Sale & pepe” e durante quell’intervista gli ho chiesto se non gli fosse balenata mai l’idea di scrivere un libro di pensieri e opinioni (era l’epoca in cui ognuno si improvvisava opinionista), lui che l’italiano medio lo aveva scandagliato in lungo e in largo nei suoi film. Mi disse di preparargli una scaletta ma di togliermi dalla testa di scrivere una biografia: era scaramantico e la cosa lo spaventava. Nel giro di due giorni gli mandai la scaletta. Gli piacque e mi fissò subito un appuntamento nel suo studio. Ci incontravamo tutti i mercoledi dalle 11 alle 15 e parlavamo a braccio di tutto. Spesso era lui a farmi domande quasi che fossi io il personaggio. Mangiavamo nella pausa delle 12,30 prosciutto, formaggio, torta ( la focaccia romana) e bevevamo uno spumantino, ma anche tè alla pesca, molto gradito da Sordi. E chiacchieravamo sotto lo sguardo vigile della sua segreteria, Annunziata Sgreccia, una signorina amica di oratorio delle sorelle dell’attore che mi diceva con l’aria fra il rassegnato e il divertito: “Me l’hanno appioppata per controllarmi!”. Gli incontri sono andati avanti fino a quando lui si è ammalato: a quel punto ci sentivamo solo al telefono.

Il libro uscì in una prima edizione intitolata “Storia di un commediante” ( titolo voluto da Sordi) , e dopo alcuni mesi l’attore morì. Ma quando era ancora in condizioni di parlare mi disse: “Tutto quello che ha registrato è suo. Ne faccia l’uso che vuole, con discrezione però!”– Cosa che ho fatto tenendo ben protette le registrazioni, per tirarle fuori, su richiesta di Mondadori a cent’anni dalla sua nascita, quando ormai tutte le polemiche e le cattiverie per l’eredità, erano scemate, andando la villa e tutti i beni di Sordi, dopo la morte della sorella Aurelia, per suo volere, alla Fondazione Museo per i giovani.

Chi avresti voluto intervistare ma non hai avuto il tempo o l’occasione?
Robert De Niro, di cui sono sempre stata una grande fan, Gandhi e Papa Francesco (che ho incontrato in privato, ma solo per accompagnare da lui una persona malata)
Ti sei mai vista censurare un pezzo? E se sì, in che modo hai reagito?
Più che censurare mi sono trovata in un pezzo delle aggiunte a me non gradite e non rispondenti a verità. Ho reagito rifiutandomi di firmare l’articolo.
Che cos’è per te oggi il vero giornalismo?
L’arte di raccontare la gente, non a tavolino, ma andando sui luoghi. E soprattutto quella di non scrivere le proprie opinioni, ma di ascoltare e riportare fedelmente quelle degli intervistati, o nel caso di fatti accaduti, la realtà.

Cosa vorresti fare da grande: progetti futuri o nuove storie da raccontare?
Sto terminando un libro il cui ricavato andrà in beneficenza alla Sant’Egidio, con storie di nipoti sconosciuti e famosi che raccontano i loro nonni. Poi ho in progetto altri libri e un documentario sui trapianti, in occasione dei cinquant’anni del primo trapianto a Pisa (ho già partecipato alla realizzazione di docufilm su Alberto Sordi, Roberto Benigni. Massimo Troisi, Mina, Armando Picchi con il regista Massimo Ferrari per Maga production e quello del documentario è un tema che amo molto). Ma più di tutto voglio fare la nonna dei miei quattro nipoti: un’arte magica che non conosce uguali.