Ve lo dico: questo è un libro dove non cʼè redenzione. E non sto facendo spoiler, vi sto solo mettendo in allerta perché tutto ciò che troverete qui dentro vi allontanerà dalla vostra zona di conforto.
Colson Whitehead (premio Pulitzer 2017) nella Ferrovia sotterranea racconta un’avventura che parte dalla prima metà dell’800 nell’America schiavista del sud e – metaforicamente – arriva fino a noi, nelle nostre case, permeando le idee tratteggiate su quello che vuol dire essere neri in un mondo di bianchi.
Una fuga infausta e faticosa che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina con un linguaggio audace che riesce ad essere allo stesso tempo coerente al periodo storico in cui si svolge. Cora, la protagonista – ma ce ne sono molti altri, ogni lettore finisce per volersi liberare dal proprio asservimento – è una bambina schiava, nata e cresciuta in una piantagione di cotone. Non aspettatevi camei di personaggi del “Colore viola”, “Dodici anni schiavo” o “Django Unchained”. L’atrocità delle torture può in qualche modo sembrare la stessa, ma l’autore affronta la questione da un’altro punto di vista.
Cora viene abbandonata dalla madre, che riesce a scappare dalla prigionia scatenando l’ira dei padroni – e non solo dei suoi – alimentando il bisogno collettivo di una caccia inferocita al negro, in contropartita alla sua agognata – e illusoria – libertà. Una libertà puramente utopica per Cora che, con qualche anno di distanza, segue l’esempio di sua madre e attraversa di corsa le paludi, ritrovandosi sempre e comunque schiava: del governo, dei finti abolizionisti e delle sue stesse convinzioni.
Quello che le parole dell’autore narrano senza giudizio, senza iperrealismo, senza propaganda – è lui stesso a dichiararlo – sono atrocità private della fantasia, perché nemmeno un’immaginazione distorta potrebbe concretizzarsi in un’apologia del male così assoluta. “Poi ci presero dimora le donne. I loro corpi erano stati usati in maniera violenta da uomini bianchi e uomini di colore, i neonati ne uscivano rachitici e avvizziti, le percosse le avevano rincitrullite e nel buio ripetevano i nomi dei loro figli morti: Eva, Elisabeth, N’thaniel, Tom.” Le inaudite atrocità, filtrate attraverso gli occhi di una piccola schiava in costante disfatta, sono contemplate prima nelle capanne, poi tra i pertugi di una soffitta e dai buchi di una ferrovia sotterranea (un apparato irreale di gallerie scavate sottoterra ma che in realtà era un sistema di fuga architettato in vari modi), dando alla fuggiasca l’impressione di essere partorita di nuovo da una terra a lei estranea. Ma, come una talpa, una volta uscita alla luce Cora è sopraffatta dal disorientamento, non riesce a mettere a fuoco l’orizzonte per aggrapparsi alla sua personale illusione di riscatto.
Non posso evitare di dirvi che questo è un libro che dovrebbe essere annoverato tra i fondamentali da leggere per la conoscenza – storica e metafisica allo stesso tempo – di un lato del razzismo che ha radici talmente ramificate da arrivare al centro della terra.
La traduzione italiana del libro è di Martina Testa (già traduttrice di altri autori americani come Wallace, McCarthy e Lethem) che anche questa volta è riuscita a vivificare l’anima di una scrittura risoluta e allo stesso tempo profondamente poetica.
Ps. La ferrovia sotterranea è disponibile anche in audiolibro – e su Audible – ed è narrato da Anna Foglietta. La sua è un’interpretazione profondamente ispirata, con un’intensità emotiva tale da sconvolgere l’ascoltatore ma, allo stesso tempo, riuscire a consolarlo.
PERIODO IN CUI LEGGERE “LA FERROVIA SOTTERRANEA”
Ora, in questo istante, subito. In un momento storico in cui si prova a censurare il manifesto della Abramović (“We are all in the same boat”) vi è l’immediata necessità di tornare indietro nel tempo per vedere come, nonostante piccole conquiste, ci si possa ritrovare sempre allo stesso punto di partenza. Esattamente come fa Cora, ogni volta che viene stanata da uno dei suoi tanti nascondigli.
Che siate politicamente corretti o meno, dovete studiare. E in queste pagine c’è tutto quello che state cercando e che confermerà o meno (prima di dichiararvi razzisti comprendete la cazzata che andate ad asserire) la visione dal vostro lato del ponte.
COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA
È scontato dirvi che la musica adatta a questo tipo di lettura dovrebbe comprendere pezzi soul, blues e jazz. Per questo, in alternativa, vi consiglio di ritirare fuori i Public Enemy, che con il loro sound hanno sdoganato la rabbia per la discriminazione, additando la violenza sia dei bianchi che dei neri (violenza che spesso, anche nel libro di Whitehead, si dimostra essere feroce tra membri della stessa comunità).
In particolare andate a cercare il pezzo “Self Distruction” contro la brutalità dilagante nelle comunità afroamericane, scritta dal rapper KRS-One all’indomani degli assassinii di Scott “La Rock” Sterling, e di un giovane fan durante un concerto dei BDP con i Public Enemy. Il testo parla dell’autodistruzione in cui si affonda (i persecutori e i perseguitati allo stesso modo) con il rischio di annegare, rimanendo disperatamente ancorati al proprio punto di vista – nient’altro che un’intollerabile zavorra.
Artista: Krs One
Brano: Self Distruction
Beatrice Galluzzi