di Veronica Galletta
Ho sempre fatto foto. Foto brutte, foto imprecise. Nel mio lavoro da ingegnere ho sempre scattato moltissime foto. Mi servivano per documentare, per verificare luoghi, anche a distanza di anni, per ricordare cose che non ricordavo, fare raffronti, riflettere meglio. Così ho cominciato a fare foto anche per scrivere. Facevo foto delle cose che mi servivano, dei posti che vedevo, di particolari che potevano entrare in una storia che avevo in testa o in un’altra che mi sarebbe piaciuto avere in testa, ma ancora non c’era. Faccio foto, perché lo faccio ancora, prendo appunti con un registratore vocale, mi mando qualche mail (no, non è vero: tante mail. troppe mail), la normale amministrazione di chi è in giro e trova, o crede di trovare, qualcosa che gli interessa.
Per me gli stimoli funzionano così, in maniera caotica e stancante, arrivano a ondate, a me tocca solo mettere ordine. Così torno a casa, scarico le foto, le sistemo nelle cartelle dei progetti che ho in bozza, o nella cartella del minestrone di quello che chissà, prima o poi potrà servire. Trascrivo i vocali, decifro le mail. Le foto che scatto girando sono sempre foto di servizio, o quasi, non cerco inquadrature, tagli, incroci. Non potrei, non so nulla di fotografia, non ho mai studiato nulla e non ho mai avuto voglia di. Cerco cose che mi possono interessare, che mi possono servire in futuro, e basta.
Però la settimana scorsa mi è successo qualcosa. Ero a Siena, ancora zona rossa, una mattina di pioggia. Avevo quindi a disposizione il centro, in un modo che non avevo mai avuto, negozi chiusi, nessuna gente, un grande silenzio. Giravo, mi guardavo attorno, fotografavo. A un certo punto mi son trovata davanti Piazza del Campo, in maniera del tutto improvvisa.
Non seguivo una cartina, non seguivo i cartelli, sono stata a Siena prima un paio di volte, una sola forse a Piazza del Campo. Ho seguito una scritta che mi piaceva, un B A R di marmo bianco, e mi sono trovata davanti la piazza. Era vuota, deserta, e sono rimasta a guardarla senza sapere cosa fare. Ho preso il telefono, per scattare una foto, ma perché intanto mi chiedevo.
A che serve una mia foto di Piazza del Campo oggi, uguale a tutte le altre? A chi serve? Non a me, non alla testimonianza di dire io in un luogo ecco ci sono stata, nei posti si va così più facilmente che non ha poi molto senso mettersi in mezzo alla Piazza per dire, per dirsi, io ero qua. Io sono qui.
E poi, pensavo, ci sono decine di posti in cui non sono mai stata, ma mi pare di esserci andata veramente, per tutte le volte che c’ho pensato, per tutte le volte che l’ho desiderato e immaginato, molto più di una Piazza del Campo qualsiasi di una città di Siena qualsiasi nella quale mi trovo in fondo per caso. Sono stata molto di più in altre città, a Belgrado, a Montreal, che non ho mai visto e forse non vedrà mai, che qui a Siena oggi, pensavo. Io sono qui vale per così tanti luoghi per chi scrive, per chi immagina storie e luoghi, pensavo.
Poi però ho preso il telefono, l’ho sollevato, ho visto sullo schermo una parte della Torre del Mangia, inquadrata dall’arco dal quale scendevo, con le lucine di Natale di un improbabile addobbo di mezza pandemia di inizio dicembre 2020. Ecco, mi sono detta allora, è questo il senso di foto come questa, ho pensato, questo è il senso della condivisione di un’immagine del genere, è una citazione, proprio come nei libri, nelle cose che scriviamo, ho pensato, che si parlano con i libri che già sono stati scritti e che abbiamo letto, o la cui aria abbiamo respirato, che citiamo consapevolmente o non all’interno delle nostre cose. Sono sicura che su un argomento del genere esistono decine e decine di testi sacri, di pensieri, di riflessioni, di connessioni. Ma a me così è venuta, così ho scattato, così ve la propongo.
[e se avete voglia, testi su cui studiare sono ben accolti nei commenti]
