Pubblicato in: Eppur son femmine

Il ritratto dello scandalo: Isabella Borrelli

di Deborah D’addetta

Vincitrice della categoria “Ritratti” per il concorso di Igers Italia 2020, Isabella Borrelli vive a Roma da sei anni ed è diventata punto di riferimento della comunità kinky[1] della capitale. Nasce come fotografa: alcuni suoi lavori sono stati selezionati dalla Biennale di Venezia ed esposti al MACRO di Roma, ma ha una speciale predilezione per i ritratti. La foto vincitrice del concorso Igers ne è la testimonianza. Una foto che ha fatto parlare di sé, che ha diviso il pubblico, tra scettici e denigratori e sostenitori appassionati.

Partiamo dal principio: chi è Isabella e com’è approdata nel mondo della fotografia?

Sono un’attivista, appassionata di politica, donna non binaria, femminista intersezionale. Amo tutto ciò che supera la categorizzazione e dove c’è uno stereotipo da superare, lì provo a esserci io. Il mio viaggio nella fotografia nasce un po’ per questo: ho iniziato durante l’ultimo anno di liceo, nel 2009, raccontando il percorso difficile di un’amica che soffriva di disturbi alimentari. Non mi è mai piaciuto il ritocco o la finzione, infatti nelle mie esperienze come fotografa commerciale odiavo ritrarre persone che poi dovevo modificare o ritoccare in postproduzione. Preferisco rappresentare la realtà per quella che è, per come viene percepita dall’esterno e so di aver fatto un buon lavoro quando chi fotografo riconosce se stesso e quel momento nel mio scatto. La seconda cavia sotto la mia lente è stata mio fratello, che mi ha aiutato a fare esperienza. Con il tempo ho capito poi di avere una naturale predisposizione per i ritratti.

Isabella

Parliamo del concorso di Igers: la tua è una foto provocatoria, trasgressiva. Era questo il tuo intento? Scandalizzare il pubblico?

Non amo questa parola, la parola trasgressivo. Per me e la mia comunità, la comunità kinky romana, non esiste la trasgressione: noi siamo semplicemente così, è il nostro modo di essere, di vivere ed io non trasgredisco proprio nulla. È questo fraintendimento che mi indispone: il pensiero che siamo qualcosa di strano, di “esotico”, di diverso, solo perché spesso si viene rappresentati come freaks. Sul mondo kinky, fetish e BDSM c’è una grandissima disinformazione. Quello che è vero è che essere kinky significa avere rispetto dell’altra persona, rispetto del consenso, dei giochi di potere come espressione della propria personalità, non di una obbligatoria perversione o depravazione. Tra di noi ci sono professionisti, medici, avvocati, coppie “normali” che hanno la passione per il gioco. Quello che facciamo non lede i diritti di nessuno e semmai è la visione del mondo che lede la nostra immagine: spesso succede che i fotografi esterni che vengono alle nostre serate infatti cerchino sempre il losco, la trasgressione, lo scandalo, quando noi non facciamo altro che divertirci, ballare, scambiare due chiacchiere, come una qualsiasi persona che va in discoteca. Solo che lo facciamo a modo nostro, magari vestendoci di latex, magari indossando una maschera. È per questo che sono diventata la fotografa ufficiale della comunità, in particolare del club Ritual, insieme al mio collega e amico Filippo Serra: facendone io stessa parte, so come rappresentare e fotografare i miei amici, quello che c’è dietro la nostra filosofia e i nostri eventi. Dico questo anche per rispondere alla domanda riguardo alla foto vincitrice del concorso: non era mia intenzione scandalizzare, ma semplicemente condividere quello che sono e quello che faccio.

Raccontaci com’è nata la fotografia che ha vinto il concorso, i suoi retroscena. Era un set preparato in anticipo? La protagonista dello scatto è una tua amica o una sconosciuta?

Diciamo che in parte era una cosa preparata, in parte è venuto tutto spontaneamente. La ragazza ritratta nella foto è una mia carissima amica, anch’essa membro della comunità kinky. Stava passando un periodo difficile a causa del Covid e di alcuni suoi problemi personali, così, quel pomeriggio, decidemmo di vederci: lei aveva voglia di fare qualche foto, di vedersi bella, di esprimersi, di mettersi in tiro, dopo lunghi mesi costretti a casa senza poter partecipare attivamente ai nostri eventi. Portò alcuni dei suoi completi in latex e cominciammo a fare un po’ di scatti, molto tranquillamente, senza alcuna pretesa artistica. Ad un certo punto facemmo una pausa e le portai una tazzina di tè. In quel momento ho avuto l’illuminazione: mi resi conto che il motivo a fiorellini della tazzina riprendeva quasi perfettamente quello della stoffa del divano, così le ho chiesto di coprirsi gli occhi con il cappuccio in latex e di continuare a fare quello che stava facendo. Ne è venuta fuori quella che per me è una metafora di un istante, la metafora della fragilità, della contrapposizione tra ciò che è prettamente borghese, come una semplice tazza da tè, e ciò che è nuovo, estraniante. Mi riferisco in particolare ad una contrapposizione visiva: il kinky contro un gesto conformista e quotidiano, l’ambiente borghese contro un completo nerissimo e lucido, contro la fiducia della mia compagna nei miei confronti, nei confronti di una confidente che in quel momento stava esaltando la sua consistente debolezza.

Ti aspettavi questa vittoria?

Assolutamente no. Come ho detto prima, non era una cosa premeditata. Sono stata io la prima a non crederci quando Igers, il 31 gennaio di quest’anno, ha annunciato i vincitori del concorso. Ho partecipato senza la minima speranza di vincere, anzi, a dir la verità, me ne ero quasi dimenticata. La proposi solo perché era la mia foto preferita del 2020.

La tua foto è stata selezionata dalla vincitrice della categoria “Ritratti” del concorso di Igers Italia 2019, Laura Patricia Barberi, e ha subito scatenato i commenti più accesi e inferociti da parte di chi non ha condiviso questa scelta. Come hai preso le critiche e le offese che ti hanno rivolto?

Sinceramente? Alcuni mi hanno fatto sorridere, su altri mi sono soffermata un po’ di più, solo perché ritenevo giusto spiegare le mie ragioni: fin tanto che qualcuno mi dice che non apprezza la foto, che il mio stile non incontra il suo gusto, va tutto bene. Quando però mi dicono che la foto esprime uno scandalo, che le persone che si vestono di latex sono pervertite o addirittura malate, c’è un problema. Siamo persone prima di tutto, che fanno cose extra-ordinarie forse per la concezione di alcuni, ma rimaniamo delle persone. Mi dispiace più che altro perché molti commenti riflettono la disinformazione e il pregiudizio immotivato di tante persone nei nostri confronti.

Sapevi che alcuni hanno gridato al plagio dopo aver visto la tua foto premiata? Qualcuno ha espresso la somiglianza dell’outfit in latex con le sfilate di alcuni anni fa di Moschino o Yves Saint Laurent.

Non lo sapevo, ma mi fa sorridere anche questa considerazione. Ai giorni d’oggi, non c’è più nulla di nuovo. Io dico sempre che noi siamo nani sulle spalle dei giganti: possiamo prendere ispirazione, ma è molto difficile inventare qualcosa di completamente rivoluzionario e nuovo. Se qualcuno ha detto che la mia foto ricorda Moschino o Yves Saint Laurent ne sono onorata. In realtà, la mia amica non indossava quel completo per corteggiare pretese di fotografia di moda o patinata: lo indossava perché è il suo abbigliamento abituale ai party, come per qualcun altro può essere un paio di jeans o una minigonna.

La comunità kinky come ha accolto la notizia della tua vittoria?

Dire che fossero entusiasti è un eufemismo. Mi hanno sostenuto tantissimo ed erano tutti contenti per me. Hanno riconosciuto che quella foto rappresentava qualcosa in cui credevo, che ho lavorato e lavoro per rappresentare me e loro nel modo più autentico possibile. Questa è la cosa che conta di più e sono stata felicissima del loro appoggio.

Progetti futuri? Sentiremo ancora parlare di te e delle tue fotografie?

Ho un paio di progetti in cantiere. Quello a cui mi sto dedicando in particolare tratterà il tema della maternità, una maternità priva di stereotipi, di aloni fiabeschi, perché diventare madri non è tutto rose e fiori. Vorrei anche rappresentarne i rischi, i problemi. Ci sono tanti tipi di mamme, non solo quelle sognanti e magiche. Ho voglia di rompere l’immagine stereotipata della mamma seduta su una nuvoletta rosa, ho voglia di raccontare anche i contro di ciò che c’è dietro ad un’attesa. E magari fotografare una mamma kinky vestita di latex, perché no?

[1] Kinky in inglese vuol dire “stravagante, eccentrico, malizioso”. Il termine, abbinato ad un gruppo di persone che formano una comunità, si riferisce a pratiche sessuali e non, di tipo consensuale, che comprendono giochi, uso di maschere, di abbigliamento in latex, di pratiche BDSM, fetish o semplicemente fa riferimento ad eventi a tema. Si usa la parola “kinky” anche quale termine ombrello per indicare il sesso un po’ più acceso e anti-convenzionale rispetto a quello tradizionale. Per combattere questi stereotipi e per far sì che le persone non si sentano stigmatizzate in base ai loro interessi e fantasie sessuali, è stata aggiunta la lettera K (l’iniziale di “kinky”) alla sigla LGBTQIA, insieme alla lettera P (che sta per “pansessuali”).

Photo: Isabella Borrelli

Deborah D’Addetta

Deborah, pugliese, 34 anni, si definisce una flâneuse. Scrive, mangia e vaga vagava per il mondo, accompagnata dalla sua macchina fotografica a pellicola. Laureata in Lingue Orientali e Conservazione dei beni culturali, adora i musei, i gatti sfinge e ha un feticcio per gli spaghetti al pomodoro. Attualmente scrive per alcuni magazine, di cibo, cultura pop, arte e cinema (Scatti di gusto, Casa di Ringhiera, Formicaleone). Ha avuto esperienza come critica letteraria e traduttrice, scrive e pubblica racconti brevi e a puntate. Il suo racconto “Auto-psia” vince il concorso di “Idrovolante Edizioni” comparendo nella raccolta di racconti “Ritratti alla guida”.

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