di Fiorella Malchiodi Albedi
Al primo mi sono presentata come collega: “Sono medico anch’io”. Errore! Perché lui non dimenticava mai che ero, appunto, una collega e a ogni mio racconto, prima faceva un commento, e poi mi spiegava, dal punto di vista medico, perché mi aveva risposto in quel modo. Insomma, il mio ruolo mutava di continuo: prima paziente, e subito dopo medico a cui si spiega una scelta terapeutica, e poi di nuovo paziente, e così via. Molto sbagliato. Lo sballottarmi da un lato all’altro della scrivania era fastidioso. Al terzo incontro gli ho spiegato che quella confusione guastava i nostri rapporti. Lui ha riconosciuto l’errore, se n’è dispiaciuto, ha tentato di recuperare, ma poi è stato d’accordo con me: lo sbaglio iniziale aveva pregiudicato il prosieguo della terapia. Ci siamo salutati, da buoni colleghi.
Il secondo era un pazzo. Mi era stato consigliato da un’amica che aveva partecipato alle sue riunioni di gruppo e cominciai a frequentarle con assiduità. L’indicazione generale era “Libera l’aggressività” e tutto andò bene finché non capitò a me di essere l’oggetto dell’aggressività. Raccontai che ero spesso attratta da uomini già impegnati e come questo avesse reso la mia vita sentimentale tormentata. La confessione scatenò l’ostilità di una donna che, scoprii dopo, frequentava il gruppo con il marito. A un certo punto disse apertamente che la mia presenza la preoccupava, perché mi vedeva come una possibile insidia al suo matrimonio, e che non mi voleva nel gruppo. Inutile dire che io non avevo mai neanche parlato con il suo compagno. Cominciai ad andare alle riunioni meno volentieri, sentendomi addosso lo sguardo astioso della donna. Poi un giorno, non ricordo più di cosa si parlasse, mi trovo a professare le mie idee politiche di sinistra. Apriti cielo: il terapeuta – cioè una persona dotata, si presuppone, di un minimo di equilibrio e in grado di misurare le parole e calcolarne le conseguenze – attacca una filippica:
– Ma come è possibile, non puoi dire una cosa del genere, non capisci di essere vittima di una manipolazione, devi emanciparti da questa convinzione che non è certo nata spontaneamente ma indotta da quelli interessati a condizionarti.

Lo guardo allibita. “Quelli interessati a condizionarti”: ma di chi sta parlando? Continua a blaterare, mentre cerco di ricordarmi di preciso cosa ho detto, forse mi sono lasciata andare a qualche frase un po’ estremistica, ma no, sono sempre stata una moderata (a parte gli anni del liceo, ma ero così giovane!), e sono sicura di aver detto solo “Sono di sinistra”, come circa il quaranta per cento della popolazione italiana. Avessi detto che parteggio per la lotta armata, che spero nella rivoluzione, ma sono una non violenta convinta e alla fine il mio essere di sinistra somiglia più a quello che predicava Cristo che a quello che diceva Marx, ma insomma è fuori di testa? Mi guardo intorno alla ricerca di solidarietà: tutti sfuggono il mio sguardo, nessuno ha niente da obiettare, anzi, qualcuno approva esplicitamente. La volta dopo lui si scusa, forse ha esagerato un po’, ma io sono venuta solo per dirgli che non tornerò più.
La terza era una donna ed è stata quella che ha resistito più a lungo, un paio d’anni. Mi faceva pensare a una gatta, aveva una testa piccola e rotonda, occhi a mandorla allungati, che quando sorrideva si riducevano a due fessure, e faceva un certo gorgoglio, quando rideva, che ricordava le fusa. La cosa naturalmente mi piacque molto. Siamo andate avanti per un pezzo, io raccontando, lei commentando. In quel periodo presi a ricordare i sogni, cosa insolita per me. Insomma mi sembrava una vicenda produttiva. Però a volte prendeva delle posizioni troppo definite. A un tratto si mise in testa di convincermi che il mio storico amore infelice non era ricambiato. Io le dicevo: ma ha detto questo, ha fatto quest’altro, e lei a spiegarmi che l’aveva detto o fatto non per amore, ma in un caso per interesse, nell’altro per convenienza. Cominciai a essere insofferente, mi seccava che mi dicesse cosa dovevo pensare o sentire. E queste indicazioni erano fuori luogo, perché non è l’analista che deve indicarti la strada, sei tu che devi scoprirla da solo con il suo aiuto. Cominciai a guardarla con diffidenza, quegli occhi da gatta ora mi sembravano infidi. Da un giorno all’altro ho smesso di parlare. Siamo andate avanti per un pezzo, seduta dopo seduta, lei aspettava, io guardavo la lancetta dei minuti camminare lentamente, e non una parola usciva dalle mie labbra. A un certo punto le ho detto che forse un periodo di lontananza poteva riattivare una spinta alla comunicazione. Lei ha accettato a malincuore, sapeva bene che non sarei tornata.

Il quarto l’ho conosciuto alla Caritas. Come psichiatra, aveva tenuto un seminario sulle difficoltà che avremmo avuto nei rapporti con i “senza fissa dimora” e che il nostro obiettivo più importante era tentare di restituire loro la dignità. Il discorso mi piacque molto. Pensai che forse potevo concedermi un ultimo tentavo di analisi. Indagai tra gli amici della mensa di Ponte Casilino e tutti lo descrissero come una persona di gran valore. Così gli chiesi se aveva uno spazio per un altro paziente e lui disse di sì, certo, potevo andare da lui alla tale ora, il tale giorno. Mi presentai e lo studio mi lasciò un po’ perplessa: era una stanzetta, con una piccola scrivania e due sedie, in uno studio dentistico. Mi dissi che essendo una persona socialmente impegnata lavorava soprattutto nel pubblico, cosa che mi sembrava apprezzabile, e cominciai con buona volontà. Il personaggio era affascinante e mi catturava. Parlavo di me e ascoltavo con interesse le sue parole, tutto sembrava andare per il meglio. Un giorno, a una manifestazione dell’estate romana, parlando con un’amica della Caritas, le dico:
– Ecco, questa è proprio una situazione in cui mi aspetterei di veder comparire il mio analista.
– Molto improbabile, – mi risponde.
– Perché? – chiedo incuriosita.
– Perché a quest’ora sta tornando a Rebibbia.
Così scopro che il mio analista è un brigatista rosso in regime di semilibertà. Non ha ucciso nessuno, ma è stato coinvolto in un traffico d’armi, e non essendosi dissociato, ha avuto una condanna durissima. E nessuno mi ha detto niente?
La cosa, lungi dal respingermi, mi attrasse ancora di più. In preda al più classico dei transfert, mi trovai a perdere la testa per l’analista. All’inizio tutto procedeva bene, io continuavo a scavare dentro di me, lui mi ascoltava e commentava con sapienza e oculatezza. A un certo punto non riuscii a non confessargli i miei sentimenti, sapevo bene che il transfert è il sintomo di un rapporto proficuo tra paziente e analista. Lui però sembrò un po’ spiazzato dalla rivelazione e non seppe gestire la situazione. La cosa mi infastidì. Io continuavo a parlare dei miei sentimenti, ma lui svicolava. Così un giorno gli dissi:
– Per anni ho vissuto amori impossibili come gabbie. Ora mi sembra di trovarmi in una situazione simile, ma in questo caso è molto più semplice rompere le catene: è sufficiente smettere di vederla.
Insomma, li ho fatti fuori tutti. A volte penso che covo un segreto inconfessabile, che fa scattare un abile meccanismo di fuga, se qualcuno tenta di avvicinarvisi. Ma ormai dubito che riuscirò a scoprirlo.
Tu hai superato il mio numero. Io ne ho cambiati 2 prima di trovare la tipa giusta.
Il mio secondo neanche lui seppe gestire il trasfert. Si presentò alle sedute con un ridicolo maglione grigio per rimanere in campo neutrale. Il bello è che dopo un pò di tempo, dopo 2 anni, la terapia fallí in parte perchè me ne andai per sfuggire a quella cosa che mi soffocava e che non riuscivo più a tollerare. Poi finalmente, in un periodo di stress acuto trovo lei, una ragazza giovane, semplice, serena che mi ispira subito calore e mi sento accolta davvero e in 4 mesi è riuscita a fare ciò che l’altro non era riuscito a fare in 2 anni. Quindi posso capirti benissimo. 😁
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Sono contenta per te. Io alla fine ho rinunciato, ma ho cominciato a scrivere: è, e continua a essere, stato molto più utile delle sedute, e sicuramente più economico 🙂
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