di Francesca Grispello
Piove fitto. È buio
C’è una figura di spalle, ha le braccia aperte, i gomiti formano un leggero angolo.
Questa figura è quella di una femmina, che sia femmina è determinante.
Ora chiudiamo e apriamo gli occhi.
Un lampo.
Chiudiamo e apriamo gli occhi ancora una volta.
Un tuono.
Ora sì, ora che i vostri occhi si sono abituati alla penombra, ora se insistete nell’accomodare la vista tra figura e sfondo, metterete a fuoco la bacchetta nella mano sinistra e il leggio che sporge ai lati della vita. La bacchetta è a sinistra perché lei è ambidestra, anche questo è determinante.
Indossa una gonna a pieghe dove si scorge appena l’incavo delle ginocchia, un corsetto che lascia le spalle scoperte, le sue gambe sono dritte. Solo i piedi, c’è quel tallone sinistro che prende le distanze dal suo collega, protesta verso una simmetria che la vuole perpendicolare al suolo come un fuso, perfettamente ascissa e molto ordinata. Il suo è un vizio, una scusa del baricentro verso un altro piano di realtà, meno misurabile e molto inclinato, il tallone decide di imprimere uno stile nel carattere della caduta.
Nulla è più efficace per nutrire la memoria che il compiere gesti anticonvenzionali.
Ci vuol metodo, ci vuol direzione e tante vertigini per scardinare il metodo e perdersi in tutte le direzioni.
Questa memoria qui ne custodiva tantissime, un otre di pezzettini tondi, aguzzi, strappati, sporchi, appiccicati, scarabocchiati. Una massa di coriandoli per far ridere una bimba che non esiste.
Dunque ora vedrete, poi non vedrete più niente, perché questo è un elenco, una suggestione, un gioco dell’oca per spiumati senza nido.
Piove fitto. È buio e l’ondulato di eternit risuona tra i palazzoni dei vicoli. I palazzi sono un pubblico interessante, certe volte sbadiglia una finestra, altre ride un balcone, certe altre si commuove una tenda, applaude un portone o russa una tapparella. Questo ondulato risuona di una logica composta di ritmo, altezze, spazi: tutte cose che non comprende affatto, le agisce, forse le pensa.
Un lampo, poi un tuono di crepa: “sei al sicuro” risuona, “non avere paura” allampa, “questa sera puoi” breccia.
Allora la femmina si erige e inizia a dirigere il ritmo e ogni sfumatura di questo acquazzone.
L’acquazzone è spartito, la chiave è l’attesa, l’ondulato è ormai tastiera, i rivoli colorano e accompagnano.

Abbraccio nel gesto.
Accoglienza del sincopato.
Ogni pausa è ogni possibile, che sia bequadro, bemolle o diesis.
Non c’è paura, c’è spazio.
Non c’è da scappare, ma da correre per bruciare.
Non c’è da nascondersi, siamo ovunque.
Piove e se non abbiamo paura di bagnarci e seguiamo i suoi movimenti, ricorderemo cose che non significano nulla.
Silenzio! C’è questo appassionato e disperato jazz acquatico in cui bruciare.
Lampo.
All’improvviso i piedi.
Tuono.
L’otre si riempie e trabocca coriandoli.
I piedi si sono bagnati.
Perché?
Bisogna fare a pezzi l’assurdo, smontare l’orologio per vedere cos’è il tempo.
Perché?
“La direttora di pioggia & invisibile è impegnata, riprovi più tardi.”
Così si inizia, con il “mettere piede” e nel “mettere in piedi” qualcosa, perché impunto i piedi su questa cosa: non ci credo che una cosa fatta o iniziata con i piedi sia fatta male.
Si edifica dal basso per lo più: un palazzo, un albero, un albero genealogico, una partitura e di certo altro.
Non che si possa ignorare la loro esistenza, ma l’attenzione spesso non va oltre la pura manutenzione ordinaria.
Cominciamo! Abbiamo 28 ossa con l’astragalo in testa a sostenere tutto il nostro peso e contrappeso, esitazioni e slanci. Un Atlante minerale che porta su di sé la tibia e il perone. L’astragalo è un soggetto paziente, non perde i gangheri nonostante l’iperstimolazione prodotta dalla variabilità del suolo che il piede incontra. Astragalo: nome magnifico, che rafforza il legame tra ciò che insiste a terra e ciò che sta in cielo.
Il piede ha la pianta, di che famiglia botanica sia non è dato saperlo. Questa pianta soffre se il suolo scotta, taglia, graffia, punge. Ride se la si solletica con una piuma, con le dita, con i baci. Sorride se la portiamo nuda nell’acqua fresca di una riva o sull’erba di un prato – una pianta sul prato è perfetta. La pianta ascolta anche senza orecchie. Ci sono alcuni che preferiscono avere, appena possibile, le proprie piante attaccate al suolo: via scarpe, calzettoni e collant!
Il piede non finisce, ha le dita e ne ha cinque, le dita possono giocare nella sabbia tiepida, godere dei baci e dei morsi bagnati di chi più garba, provare a prendere oggetti, adornarsi di anelli, disegnare arabeschi nel cielo a ritmo di musica o sgranchirsi.
Il piede è rivestito di scarpe, a volte questo comporta andatura, altezza e pena. I piedi tendenzialmente giocano, corrono, danzano quando non danno calci, sanno essere seri quando compongono metrica in poesia, tengono il tempo e misurano razionalmente il mondo, tutto questo nonostante la loro distanza dalla testa. I piedi hanno il collo, ma non hanno la testa, per fortuna c’è il tallone a rendere tutto stabile e tondo, a portare tutta la baracca in terra e a far girare i tacchi, alla bisogna.
La direttora percorre gli estremi delle gocce, tutte le gravità di cui è schiava, e danza ogni cosa: ora è mano, poi sarà occhio, naso, nuca, ginocchio, ramo, sasso… ora è al sicuro, ora lei sola può farsi a pezzi.
Un lampo
Un tuono
Un lampo
Un tuono
Nel massimo dell’estasi, con le spalle imperlate di nervi, pioggia e sudore, arrivano le stelle: un carro grande e uno piccolo a sostenere i pezzi e il condurre, una strada mammifera di polvere, latte e godimento. Il cielo si apre, ma la pioggia insiste. La direttora vi appare come nel vostro ultimo lampo, con quel tallone fuori asse, con il gomito flesso, con il dorso di una schiena che se siamo stati attenti è una mappa. Una mappa eretica.