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Analisti alla rinfusa ovvero come sfuggire al terapeuta

di Fiorella Malchiodi Albedi

Al primo mi sono presentata come collega: “Sono medico anch’io”. Errore! Perché lui non dimenticava mai che ero, appunto, una collega e a ogni mio racconto, prima faceva un commento, e poi mi spiegava, dal punto di vista medico, perché mi aveva risposto in quel modo. Insomma, il mio ruolo mutava di continuo: prima paziente, e subito dopo medico a cui si spiega una scelta terapeutica, e poi di nuovo paziente, e così via. Molto sbagliato. Lo sballottarmi da un lato all’altro della scrivania era fastidioso. Al terzo incontro gli ho spiegato che quella confusione guastava i nostri rapporti. Lui ha riconosciuto l’errore, se n’è dispiaciuto, ha tentato di recuperare, ma poi è stato d’accordo con me: lo sbaglio iniziale aveva pregiudicato il prosieguo della terapia. Ci siamo salutati, da buoni colleghi.

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Manuale per coriandoli e pioggia

di Francesca Grispello

Piove fitto. È buio

C’è una figura di spalle, ha le braccia aperte, i gomiti formano un leggero angolo. 

Questa figura è quella di una femmina, che sia femmina è determinante. 

Ora chiudiamo e apriamo gli occhi. 

Un lampo. 

Chiudiamo e apriamo gli occhi ancora una volta. 

Un tuono. 

Ora sì, ora che i vostri occhi si sono abituati alla penombra, ora se insistete nell’accomodare la vista tra figura e sfondo, metterete a fuoco la bacchetta nella mano sinistra e il leggio che sporge ai lati della vita. La bacchetta è a sinistra perché lei è ambidestra, anche questo è determinante.

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Trattato di economia e chirurgia domestica per compulsivi di Hans Asperger

di Jessica Loddo

1. Riassetto del guardaroba: come evitare uno sterminio di stampe innocenti con una sistemazione atta a proteggere un certo decoro nel costume

Le magliette sistemate secondo una strana sequenza, come se l’immagine di due sicari con la pistola, citazione del più famoso film uscito nel 1994, dove il personaggio femminile con il caschetto nero più sexy del cinema americano ha incendiato i pantaloni di mezzo mondo, non potesse accostarsi minimamente a quella di una banana pop art, copertina di uno dei vinili più famosi di sempre, nello stesso cassetto. Come se i sicari avessero la lebbra del cotone o una strana HIV da contagio a 30° presa nella lavatrice, magari infettati dalla maglia del regista contemporaneo danese più importante del cinema moderno o che ha diretto quel film dove alla fine Nicole Kidman si vendica alla grande. Qualcuno lo diceva di non fidarsi di quell’uomo, che è proprio un brutto ceffo ed è persona non gradita al festival di cinema più famoso in Francia. Potrebbe anche esser stata la maglia di quel regista tedesco, dalla voce più bella di sempre che quando lo senti doppiato ci resti male, ad aver sganciato qualche bomba batteriologica, tipo il vaiolo del misto poliestere proprio al passaggio dei sicari, quando comincia a venir giù l’ammorbidente, rigorosamente blu, con una profumazione sobria che non fa venire la nausea. Con questo pericolo dipropagazione di virus sconosciuti proprio non possono stare vicini. Loro no, ma per uno strano caso della vita, un famoso tassista dalla cresta perfetta riesce a convivere alla perfezione con la bambina simbolo del più celebre film sui morti viventi. 

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Analisti alla rinfusa ovvero come sfuggire al terapeuta

di Fiorella Malchiodi Albedi

Al primo mi sono presentata come collega: “Sono medico anch’io”. Errore! Perché lui non dimenticava mai che ero, appunto, una collega e a ogni mio racconto, prima faceva un commento, e poi mi spiegava, dal punto di vista medico, perché mi aveva risposto in quel modo. Insomma, il mio ruolo mutava di continuo: prima paziente, e subito dopo medico a cui si spiega una scelta terapeutica, e poi di nuovo paziente, e così via. Molto sbagliato. Lo sballottarmi da un lato all’altro della scrivania era fastidioso. Al terzo incontro gli ho spiegato che quella confusione guastava i nostri rapporti. Lui ha riconosciuto l’errore, se n’è dispiaciuto, ha tentato di recuperare, ma poi è stato d’accordo con me: lo sbaglio iniziale aveva pregiudicato il prosieguo della terapia. Ci siamo salutati, da buoni colleghi.

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Manuale per sportellisti Asl

di Ornella Zambelli

Mattino, voi arrivate al lavoro e trovate gente in fila davanti allo sportello ancora chiuso. Anche se sulla porta c’è un bel cartello a caratteri cubitali AZIENDA SANITARIA mettetevi il cuore in pace, per i vostri utenti sarete sempre quelli della mutua. Accendete il computer e preparate ciò che vi serve. Per quanto siate veloci e puntuali, non lo sarete mai abbastanza. Molti chiederanno ad alta voce come mai non aprite in anticipo dal momento che siete arrivati. Non vi sentite già un po’ in colpa? In genere sono anziani che si svegliano presto e non hanno più nulla da fare a letto. Ascoltate i commenti e scoprirete che il computer non si accende perché è entrato un acaro. Qualcuno più esperto preciserà che si tratta di un virus, gliel’ha detto suo nipote che frequenta proprio quella scuola lì dei computer. Sentirete subito un brusio allarmato, ma voi tirate su la tapparella con un sorriso e dichiarate che il computer si è acceso e va benissimo, aspettate il sospiro di sollievo e svelate il segreto: i virus del computer non fanno ammalare gli umani.

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Manuale di sopravvivenza ai quartieri

di Valentina Formisano

(Come adattarsi velocemente al Prugneto)

Prima di tutto, compratevi un barboncino.

E che ne so.

Qua c’hanno tutti il barboncino.

Vabbè… tutti tutti proprio no. Ma la maggior parte.

Fidàteve.

Compratelo e mettetelo da parte.

Armatevi di tanta pazienza per sopportare Mario.

Mario ve rompe er cazzo.

Tutte le mattine.

Che siate fiche, che siate vecchie, che siate uomini o donne: Mario ve rompe er cazzo perché passate sul suo territorio.

Attraversate il ponticello?

Mario ve rompe er cazzo.

Passate davanti a Lardo (quel bar che fa i cornetti molto light)?

Mario abita là e ve rompe er cazzo.

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Profumo di lavanda

di Pamela Frani

Perché, quando il martedì Isabellinalapiùbellina, con i capelli ricci e più confusionari dei giardinetti, ti corre incontro e ti chiede: Monica giochiamo a cavalluccio? tu istintivamente la prendi sulle spalle e inizi a trotterellare con entusiasmo, e cloppete e cloppete. 

Lei fa ciao ciao con la manina alla sua mamma che sta in terrazza con le amiche a bere uno spritz, mentre tu, Monica la superbabysitter, ti occupi di Isabellinalapiùbellina e di Carlomoccolo. E Isabellinalapiùbellina adora mettere i suoi capelli davanti ai tuoi occhi, mentre, e cloppete e cloppete, correte in giardino. E poi insieme a Carlomoccolo giocate a tic tac bomba, e anche tu Monica la superbabysitter ti metti nel circolo con i bambini, perché solo tu sai contare fino a venti e poi dire tic tac bomba, mentre vi passate il cappellino da una testa all’altra. E di nuovo a correre a cavalluccio, e cloppete e cloppete, con la testa dei bambini attaccata alla tua e le manine appiccicose attorno al collo. 

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Essere Lady D.

di Valeria Micale

Due miliardi e mezzo di persone, praticamente la metà della popolazione mondiale. Se lo ricorda benissimo, è rimasta incollata davanti allo schermo tutta la mattina e infatti ha bruciato il pranzo. Dio, quanto ha pianto. Al ritorno dal lavoro suo marito si è spaventato, che è successo, le ha detto, pensava ai bambini, lei col mento che le tremava ha indicato la tv e lui: te pòssino, e giù una bestemmia. Ha buttato il pollo e hanno mangiato tonno in scatola. Se l’è riguardato mille volte sulla videocassetta, finché il VHS si è rotto e suo marito invece di farlo riparare ha comprato il lettore dvd. Oggi è scesa in garage e sta sfogliando le pagine del numero speciale che conserva insieme a un’intera collezione di riviste, inserti e altro su Lady D. Lo fa ogni volta che si sente avvilita dalla stanchezza o dalla noia: si infila in macchina, si mette comoda e legge. Bisogna sempre avere un luogo in cui rifugiarsi, e per lei quel luogo è la corte d’Inghilterra, o un panfilo ormeggiato al largo della Costa Smeralda, o un lussuoso hotel di Parigi.

Per essere Lady D. bisogna arrivare vergini al matrimonio. Lei non lo era, ma tanto suo marito non se n’è accorto. Le ha appoggiato il cazzo mezzo moscio sulla porta ed è venuto con un grugnito e lei è rimasta incinta. L’amore l’aveva già fatto con un paio di ragazzi che le facevano il filarino, niente di importante.

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Firmato: la resp. dott.ssa Tissen

di Elena Marrassini

La dottoressa Tissen negli ultimi giorni ha un sospetto che la morde da dentro, sempre più forte: forse ha davvero il pollice nero. Le piante continuano a morirle fra le mani e ogni tanto muoiono anche senza che le tocchi. Eppure a lei piacciono le piante. Le son sempre piaciute, come piacciono di solito le cose e le persone che non si possono avere. Che poi a ben pensarci lei le piante le ha sempre viste come metà cose e metà persone. O almeno come metà cose e metà animali, insomma.

La dottoressa Tissen sospetta altresì di avere nero anche l’umore, molto nero ultimamente. Praticamente da quando è in pensione. Non lo avrebbe mai creduto possibile. Ma quello dipende dagli altri, non dal suo pollice e nemmeno dal suo sguardo. Anzi, la colpa è sicuramente degli altri condomini del palazzo, diciamolo.

E pensare che lei si era preparata molto a quel passaggio, al pensionamento, al trasloco, alla sua nuova vita in quella palazzina signorile in zona silenziosa a due passi dal centro. Si era preparata benissimo, file dopo file. Aveva memorizzato nel suo computer idee, spunti, suggerimenti per il manuale della pensionata felice, o almeno sportiva, intellettualmente attiva e piena di interessi. Soprattutto piena di quegli interessi che aveva dovuto trascurare durante la sua carriera lavorativa, fatta solo di normative, di responsabilità, di graduatorie nei concorsi pubblici e progressioni verticali. Primo fra tutti, aveva castrato il suo interesse per il giardinaggio e la cura dei fiori in vaso.

Aveva sempre avuto dei terrazzi tristi, lei. Cosa c’è di più triste di un terrazzo tinto di smog e vuoto che si affaccia su strade piene di automobili? Unica compagnia le polveri sottili, il rumore del traffico e la macchina del condizionatore, anche lei grigia di polvere. Usciva la sera a fumare su quei terrazzi finti, come li chiamava lei, gli stessi in ogni città, sognando di smettere finalmente di discutere, di scrivere intere mail che nessuno leggeva ma che sarebbero servite al momento opportuno per scagionarsi da accuse, le più disparate Si spaziava dal vedersi rinfacciare di non aver tenuto i necessari contatti coi fornitori, al fatto di non avere convocato tutti in una importante riunione, fino ad arrivare a esprimere, coi direttori in conoscenza, sospetti su come lei avesse impiegato parti del suo succulento budget. “Succulento” erano arrivati a scrivere, quei serpenti, lucidi di invidia. Ma lei le ritrovava tutte le mail che l’assolvevano da quelle accuse, e che bello premere il tasto inoltra. Una volta, sul balconcino in ferro battuto di un appartamento preso in affitto da un’anziana signora, trovò una serie di vasi appesi alla ringhiera: contenevano fiori di plastica. Fiori rosa, rossi e viola, sudici dello stesso appiccicoso pulviscolo grigio che stava, anche lì, sulla macchina esterna del condizionatore. Fu uno dei momenti più tristi della sua vita di giovane donna in carriera. Forse il più triste, dal momento che dopo tutto la sua vita non era stata sconvolta da eventi di rottura o da forti traumi: ci era stata molto attenta, la dottoressa Tissen, applicando lo stesso pragmatismo e la precisione che l’avevano contraddistinta sul lavoro e nello studio. E aveva funzionato, si era trovata proprio bene, molto meglio di tante sue coetanee. Tanto non è che quelle della sua generazione potessero scegliere di stare nel mezzo, o ti esercitavi per diventare Angelo del Focolare o studiavi e facevi la guerra coi maschi. E magari la vincevi. A lei era successo di vincerla spesso.

Classe 1948, era stata una figlia unica e contenta, leader di tutta la compagnia del cortile del quartiere popolare. Riusciva a farsi seguire da tutti, e da tutte, anche se le femmine si erano poi tutte perse, dentro a fidanzati e poi mariti e poi debiti e poi bambini e poi ragazzi grandi e poi divorzi e quindi di nuovo debiti. Alcune di loro si erano arrangiate con un lavoro part time, “che per una donna vuoi mettere, è molto più adatto e conciliabile con tutto il resto, no?” Quel resto a lei non era mai interessato, e non lo aveva nemmeno preso in considerazione.

Certo è che gli uomini non le erano mai mancati. Li aveva sempre preferiti sposati, per tutta una serie di motivi, gli stessi motivi che portavano al divorzio le sue amiche perse: non le chiedevano figli da crescere, assieme al senso del dovere, che sarebbe cresciuto di pari passo coi figli e sarebbe diventato enormemente più grande dei figli stessi; non le chiedevano abitudini fisse, e tantomeno il calore domestico, che ti ci scottavi, con quello, quando inevitabilmente avrebbe iniziato a bollire, immerso nei litigi. Che poi in fondo ce ne era stato uno solo di uomini, non sposato, che pianse mentre lei lo lasciava e le disse che avrebbe fatto meglio a prendersi un gatto, e lei aveva sorriso pensando che sì, anche quella sarebbe stata una voce da aggiungere alla lista delle cose per la pensione: un gatto.

Aveva vinto talmente tante volte la dottoressa Tissen, che adesso proprio non capisce cosa le stia succedendo, e tutto per delle piante poi, piante che muoiono, che non riesce a tenere con sé nonostante l’impegno, l’ordine, la precisione e la puntualità: nonostante tutto quello che lei applica alla vita, ormai da una vita. Ora inizia a capire il ruolo dei fiori di plastica, forse li hanno inventati per quelli come lei, e il suo malumore aumenta e la sgomenta.

No ma è sicuramente colpa dei condomini. Hanno sempre sbagliato tutto con lei, fin dall’inizio. Nella campanelliera in ottone giù al portone, non appena si è trasferita qui, nel suo primo appartamento della vita (la vita vera inizia da pensionati, no?) hanno scritto il suo nome sbagliato: Dora Tyssen.

Il suo cognome è Tissen, senza la y. Thyssen svizzero italianizzato Tissen ormai da generazioni. Ma loro cosa vuoi che ne capiscano. Son buoni solo a curare le piante sui loro balconi e nell’atrio condominiale. E lo sanno. E se ne vantano come solo si vanta chi sa di saper far bene solo una cosa, quando invece la vita te ne chiede mille, di cose.

A lei poi, non ne parliamo di quante cose ha chiesto la vita. E di quante adesso ne chiede quel condominio. Dal momento che non ha famiglia ed è in pensione, pare debba fare tutto lei: rapporti con l’amministratore, assemblee con fogli di delega a rotazione, ritiro raccomandate e pacchi, coordinamento addetti allo spurgo e tecnici dell’ascensore. Sembra che le trovino tutte pur di tenerla occupata, e lei è stanca di organizzare, stanca di compilare moduli online, stanca della burocrazia. Va bene, ha fatto per trent’anni la dirigente all’Istituto Nazionale Previdenza Sociale, ma mica sa fare solo quello: sta imparando tutte le cose scritte nei suoi appunti e le stanno riuscendo anche bene. Okay, a parte la questione delle piante.

Va beh, in verità avevano anche iniziato a chiederle di fare la nonna che porta e riprende i bimbi del primo e del quarto piano dalla scuola e dagli sport, ma hanno smesso, dopo quell’episodio di qualche mese fa, quando a detta loro, “lei esagerò sul serio”.

Eppure ogni volta che ci pensa la sua bocca si piega in un sorriso, e continua a non vederci nulla di strano: fece andare i bimbi sul suo terrazzo, gli fece togliere le scarpe e li fece salire nei vasi rettangolari sul pavimento alla base della ringhiera, in mezzo a quelle sterpaglie essiccate che sarebbero dovuti essere i suoi gerani. Poi innaffiò loro i piedini paffuti, che belli, invitavano a prenderli a morsi, e lei mordeva e loro ridevano. Si divertirono tanto. Si misero lì buoni ad aspettare di crescere. Anzi, quando cominciò a piovere erano ancora più contenti, perché così sarebbero cresciuti prima, e che gioia per lei guardarli attraverso la porta finestra del salotto, con quel sorriso che da anni non si ricordava di avere. Ci aveva scritto anche quello, nel suo taccuino digitale delle cose da fare una volta in pensione: prendersi tempo per tornare come era stata coi ragazzi del cortile, a giocare e annusare il terriccio bagnato nei vasi, dove mamma sbriciolava i fondi del caffè, che fa bene alle piante. Con le sue non aveva funzionato nemmeno quello.

E invece mammamia! Tutti arrabbiati con lei, i condomini. Non capiscono veramente niente. Le hanno detto che non avrebbe più dovuto né toccare né parlare con i bambini e nemmeno con le piante giù all’ingresso, che l’avevano sentita loro che ci litigava con le piante, che si credeva lei. Le apostrofava come fossero dei bimbi disobbedienti e le rimproverava se non avevano le foglie abbastanza lucide domandandosi chi fosse che le teneva in quel modo, quando invece erano proprio delle belle piante e godevano di ottima salute, mica come quelle del suo terrazzo. Si occupasse della burocrazia lei, che era l’unica cosa che sapeva fare bene, quella.

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Best practices per colloqui di lavoro di successo

di Linda De Santi 

Aveva scelto abiti formali, colori sobri per esprimere equilibrio, dettagli casual per comunicare versatilità. Erano servite quattordici prove per trovare l’outfit adatto, quello che riusciva a trasmettere il giusto mix di serietà e potenziale. 

Il colloquio per la posizione di Corporate Office Manager era alle 15, nella sede centrale di Laman, Agenzia di Servizi Digitali Integrati. Un’azienda seria, strutturata, proiettata nel futuro. 

Stavolta Irene si era preparata bene. Davanti allo specchio, mentre controllava la sfumatura del fondotinta, ripassò le best practices che aveva letto su un’autorevole rivista online. 

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