Pubblicato in: Rivista

Essere Lady D.

di Valeria Micale

Due miliardi e mezzo di persone, praticamente la metà della popolazione mondiale. Se lo ricorda benissimo, è rimasta incollata davanti allo schermo tutta la mattina e infatti ha bruciato il pranzo. Dio, quanto ha pianto. Al ritorno dal lavoro suo marito si è spaventato, che è successo, le ha detto, pensava ai bambini, lei col mento che le tremava ha indicato la tv e lui: te pòssino, e giù una bestemmia. Ha buttato il pollo e hanno mangiato tonno in scatola. Se l’è riguardato mille volte sulla videocassetta, finché il VHS si è rotto e suo marito invece di farlo riparare ha comprato il lettore dvd. Oggi è scesa in garage e sta sfogliando le pagine del numero speciale che conserva insieme a un’intera collezione di riviste, inserti e altro su Lady D. Lo fa ogni volta che si sente avvilita dalla stanchezza o dalla noia: si infila in macchina, si mette comoda e legge. Bisogna sempre avere un luogo in cui rifugiarsi, e per lei quel luogo è la corte d’Inghilterra, o un panfilo ormeggiato al largo della Costa Smeralda, o un lussuoso hotel di Parigi.

Per essere Lady D. bisogna arrivare vergini al matrimonio. Lei non lo era, ma tanto suo marito non se n’è accorto. Le ha appoggiato il cazzo mezzo moscio sulla porta ed è venuto con un grugnito e lei è rimasta incinta. L’amore l’aveva già fatto con un paio di ragazzi che le facevano il filarino, niente di importante.

Lady D. era una brava mamma. Quindi, cercare di essere una brava mamma. Fare cose tipo vincere la gara di corsa delle mamme il primo giorno di scuola. Invece arrivarono in ritardo perché la sera prima suo marito si era ubriacato e si era fatto un taglio sulla testa inciampando nel camioncino del Lego; lei l’aveva dovuto medicare e aveva dovuto pulire dal vomito il divano e la moquette e perciò la mattina non aveva sentito la sveglia. Le maestre l’avevano guardata male e si erano portate i bambini in classe come se li togliessero dalle mani di una povera pazza. O una scema. Ma lei non è pazza, né scema. Quelle stronze. Pensare che si era pure messa la gonna larga e i mocassini per poterseli sfilare facilmente e correre sul prato. Al posto del prato c’era una passatoia di linoleum che copriva il pavimento pieno di buchi. Ma cosa ci avevano fatto, poi, per riempirlo di buchi. Fili, tracce, boh. Che scuola di merda.

Il segreto per avere lo sguardo di Lady D. è abbassare il mento e guardare da sotto in su, girando gli occhi di lato. Lato sinistro. Se li guardi in quel modo, gli uomini non sanno dirti di no, garantito al cento per cento. Ne ha la prova col suo capo, ogni volta che deve chiedere un permesso al lavoro perché suo padre si è sentito male oppure perché deve andare al dispensario a prendere le traverse. Lui dice di sì e il giorno dopo le chiede un pompino. Dovresti chiedere la 104, le dice.

È davvero un casino, in garage. Si deve mettere ordine. Quelle scatole vanno accanto al VHS rotto perché contengono le videocassette. Qualcuno dovrà riversarle, prima o poi. Le damigiane si possono eliminare perché, tanto, vino non ne comprano più, suo marito ha smesso di bere, per fortuna. Quando beveva, una settimana sì e una no lei finiva al Pronto Soccorso. Sono caduta, diceva. Oppure: ho sbattuto sulla vasca da bagno. Anche il seggiolino per l’auto si può dare via. Liberare spazio.

Saper ballare. Questo è essenziale. Lady D. amava il ballo. Ballava ogni volta che ne aveva l’occasione. Lo dovremmo fare tutte. Lei balla quando è sola in casa; mette la musica a volume altissimo e si guarda riflessa nei vetri dei balconi. Con le serrande abbassate, ovvio, se no la vedrebbero da fuori. Fa finta di essere alla Casa Bianca e ballare con John Travolta. Gli svolazza tra le braccia, fa ruotare la gonna, e alla fine si piega in una riverenza e lui le fa l’inchino. Da quando è ingrassata, però, le manca il fiato.

In una cosa è meglio NON essere come Lady D.: mai confidarsi con qualcuno. Meglio sarebbe non avere segreti, ma come si fa? Smettere di prendere la pillola senza dirlo al marito. Abortire senza dirlo al marito. Baciare sulla bocca il migliore amico del marito. Sfilare banconote dal portafoglio del marito. Uh, quante cose è meglio tenere per sé. Andare ad abortire da sola, però, non è bello.

Lady D. era infelice. Infelice così tanto da ammalarsi. Depressione, bulimia. Ci sono certe foto in cui è l’ombra di sé stessa. Disgraziatamente, a lei l’infelicità fa venire fame. Ci ha provato, a vomitare, dopo aver ingurgitato un’intera vaschetta di gelato, un barattolo di maionese con i crackers e due sacchetti di popcorn, ma non c’è riuscita, anzi ha dormito alla grande. I ricchi infelici dimagriscono, i poveri ingrassano. Lei ha messo su venti chili nell’ultimo anno. Meglio, comunque, così suo marito si tiene alla larga. È stata una liberazione, disfarsi di quel pisello moscio e di quell’alito da topo morto. Quello che le dispiace è non poter più indossare l’abito da sposa. 

Era identico, copiato alla perfezione. A costo di sembrare fuori moda, perché non erano mica più gli anni Ottanta. Taffetà di seta avorio, maniche a sbuffo, fiocchetti. Si era sentita veramente una principessa, quel giorno. Dopo la prima gravidanza l’aveva fatto allargare per poterlo indossare ancora e ancora. Alla sartina aveva detto che l’aveva messo in vendita e che l’acquirente era una taglia 48. Così ha potuto continuare a indossarlo in segreto per anni. Adesso è in garage pure quello, nello scatolone bianco accanto alla collezione di riviste.

Ora, come si fa ad amare un musulmano? Lady D. amava un musulmano. Non Dodi, quello era solo un passatempo, un chiodo-scaccia-chiodo. Il suo vero amore era un chirurgo pakistano. Era persino volata in Pakistan a conoscere la famiglia, ma quelli non l’avevano voluta, nonostante fosse la principessa del Galles. Così si era buttata nelle braccia di Dodi. Succede che ci buttiamo nelle braccia sbagliate. Lei dei musulmani ha sempre avuto paura, finché non ha conosciuto Ahmed. Sta davanti all’hard discount e aiuta i clienti a trasportare i carrelli carichi di spesa fino alle macchine. Sempre con quelle ciabatte e i piedi di fuori, anche d’inverno. I piedi dei neri hanno il dorso marrone e la pianta rosa. Anche se Ahmed, in effetti, non è proprio nero. Un giorno che pioveva è scivolata su un volantino ed è caduta lunga per terra, le bottiglie si sono rotte e il sugo di pomodoro è finito sul marciapiede. Ahmed è corso ad aiutarla, le ha chiesto se si era fatta male, l’ha aiutata a rimettersi in piedi, ha raccolto i cocci di vetro, l’ha fatta sedere sulla cassetta della frutta che usa come sgabello, si è offerto di portarle un bicchiere d’acqua. Dove l’avrebbe preso, poi, ‘sto bicchiere d’acqua. In ogni caso lei ha detto no. Non si fidava. Vengono qui per rubare il lavoro agli italiani o per farsi esplodere in mezzo alla gente. Intanto che cercava di ripulirsi dal fango, lui è tornato con due sacchetti nuovi e ci ha rimesso dentro tutta la spesa: scatolette, carta igienica, lattine di Coca Cola, cotone idrofilo. Lei ha controllato che non mancasse niente. Da allora si salutano, ogni tanto scambiano qualche parola. Ahmed viene dal Marocco, ha lasciato lì la moglie e quattro figli. A volte pensa come sarebbe stata la sua vita se avesse sposato Ahmed.

Chiude la rivista e la poggia sul sedile accanto. Due miliardi e mezzo di persone. Per lei ce ne sarebbero al massimo una ventina. Si soffoca, in garage. Aziona il telecomando della saracinesca, abbassa i finestrini, avvia il motore. Guida lungo la strada deserta, velocità di crociera. Quando imbocca il sottopassaggio, schiaccia il pedale dell’acceleratore. È più facile essere amate da morte che da vive.

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