di Elena Marrassini
La dottoressa Tissen negli ultimi giorni ha un sospetto che la morde da dentro, sempre più forte: forse ha davvero il pollice nero. Le piante continuano a morirle fra le mani e ogni tanto muoiono anche senza che le tocchi. Eppure a lei piacciono le piante. Le son sempre piaciute, come piacciono di solito le cose e le persone che non si possono avere. Che poi a ben pensarci lei le piante le ha sempre viste come metà cose e metà persone. O almeno come metà cose e metà animali, insomma.
La dottoressa Tissen sospetta altresì di avere nero anche l’umore, molto nero ultimamente. Praticamente da quando è in pensione. Non lo avrebbe mai creduto possibile. Ma quello dipende dagli altri, non dal suo pollice e nemmeno dal suo sguardo. Anzi, la colpa è sicuramente degli altri condomini del palazzo, diciamolo.
E pensare che lei si era preparata molto a quel passaggio, al pensionamento, al trasloco, alla sua nuova vita in quella palazzina signorile in zona silenziosa a due passi dal centro. Si era preparata benissimo, file dopo file. Aveva memorizzato nel suo computer idee, spunti, suggerimenti per il manuale della pensionata felice, o almeno sportiva, intellettualmente attiva e piena di interessi. Soprattutto piena di quegli interessi che aveva dovuto trascurare durante la sua carriera lavorativa, fatta solo di normative, di responsabilità, di graduatorie nei concorsi pubblici e progressioni verticali. Primo fra tutti, aveva castrato il suo interesse per il giardinaggio e la cura dei fiori in vaso.
Aveva sempre avuto dei terrazzi tristi, lei. Cosa c’è di più triste di un terrazzo tinto di smog e vuoto che si affaccia su strade piene di automobili? Unica compagnia le polveri sottili, il rumore del traffico e la macchina del condizionatore, anche lei grigia di polvere. Usciva la sera a fumare su quei terrazzi finti, come li chiamava lei, gli stessi in ogni città, sognando di smettere finalmente di discutere, di scrivere intere mail che nessuno leggeva ma che sarebbero servite al momento opportuno per scagionarsi da accuse, le più disparate Si spaziava dal vedersi rinfacciare di non aver tenuto i necessari contatti coi fornitori, al fatto di non avere convocato tutti in una importante riunione, fino ad arrivare a esprimere, coi direttori in conoscenza, sospetti su come lei avesse impiegato parti del suo succulento budget. “Succulento” erano arrivati a scrivere, quei serpenti, lucidi di invidia. Ma lei le ritrovava tutte le mail che l’assolvevano da quelle accuse, e che bello premere il tasto inoltra. Una volta, sul balconcino in ferro battuto di un appartamento preso in affitto da un’anziana signora, trovò una serie di vasi appesi alla ringhiera: contenevano fiori di plastica. Fiori rosa, rossi e viola, sudici dello stesso appiccicoso pulviscolo grigio che stava, anche lì, sulla macchina esterna del condizionatore. Fu uno dei momenti più tristi della sua vita di giovane donna in carriera. Forse il più triste, dal momento che dopo tutto la sua vita non era stata sconvolta da eventi di rottura o da forti traumi: ci era stata molto attenta, la dottoressa Tissen, applicando lo stesso pragmatismo e la precisione che l’avevano contraddistinta sul lavoro e nello studio. E aveva funzionato, si era trovata proprio bene, molto meglio di tante sue coetanee. Tanto non è che quelle della sua generazione potessero scegliere di stare nel mezzo, o ti esercitavi per diventare Angelo del Focolare o studiavi e facevi la guerra coi maschi. E magari la vincevi. A lei era successo di vincerla spesso.
Classe 1948, era stata una figlia unica e contenta, leader di tutta la compagnia del cortile del quartiere popolare. Riusciva a farsi seguire da tutti, e da tutte, anche se le femmine si erano poi tutte perse, dentro a fidanzati e poi mariti e poi debiti e poi bambini e poi ragazzi grandi e poi divorzi e quindi di nuovo debiti. Alcune di loro si erano arrangiate con un lavoro part time, “che per una donna vuoi mettere, è molto più adatto e conciliabile con tutto il resto, no?” Quel resto a lei non era mai interessato, e non lo aveva nemmeno preso in considerazione.
Certo è che gli uomini non le erano mai mancati. Li aveva sempre preferiti sposati, per tutta una serie di motivi, gli stessi motivi che portavano al divorzio le sue amiche perse: non le chiedevano figli da crescere, assieme al senso del dovere, che sarebbe cresciuto di pari passo coi figli e sarebbe diventato enormemente più grande dei figli stessi; non le chiedevano abitudini fisse, e tantomeno il calore domestico, che ti ci scottavi, con quello, quando inevitabilmente avrebbe iniziato a bollire, immerso nei litigi. Che poi in fondo ce ne era stato uno solo di uomini, non sposato, che pianse mentre lei lo lasciava e le disse che avrebbe fatto meglio a prendersi un gatto, e lei aveva sorriso pensando che sì, anche quella sarebbe stata una voce da aggiungere alla lista delle cose per la pensione: un gatto.

Aveva vinto talmente tante volte la dottoressa Tissen, che adesso proprio non capisce cosa le stia succedendo, e tutto per delle piante poi, piante che muoiono, che non riesce a tenere con sé nonostante l’impegno, l’ordine, la precisione e la puntualità: nonostante tutto quello che lei applica alla vita, ormai da una vita. Ora inizia a capire il ruolo dei fiori di plastica, forse li hanno inventati per quelli come lei, e il suo malumore aumenta e la sgomenta.
No ma è sicuramente colpa dei condomini. Hanno sempre sbagliato tutto con lei, fin dall’inizio. Nella campanelliera in ottone giù al portone, non appena si è trasferita qui, nel suo primo appartamento della vita (la vita vera inizia da pensionati, no?) hanno scritto il suo nome sbagliato: Dora Tyssen.
Il suo cognome è Tissen, senza la y. Thyssen svizzero italianizzato Tissen ormai da generazioni. Ma loro cosa vuoi che ne capiscano. Son buoni solo a curare le piante sui loro balconi e nell’atrio condominiale. E lo sanno. E se ne vantano come solo si vanta chi sa di saper far bene solo una cosa, quando invece la vita te ne chiede mille, di cose.
A lei poi, non ne parliamo di quante cose ha chiesto la vita. E di quante adesso ne chiede quel condominio. Dal momento che non ha famiglia ed è in pensione, pare debba fare tutto lei: rapporti con l’amministratore, assemblee con fogli di delega a rotazione, ritiro raccomandate e pacchi, coordinamento addetti allo spurgo e tecnici dell’ascensore. Sembra che le trovino tutte pur di tenerla occupata, e lei è stanca di organizzare, stanca di compilare moduli online, stanca della burocrazia. Va bene, ha fatto per trent’anni la dirigente all’Istituto Nazionale Previdenza Sociale, ma mica sa fare solo quello: sta imparando tutte le cose scritte nei suoi appunti e le stanno riuscendo anche bene. Okay, a parte la questione delle piante.
Va beh, in verità avevano anche iniziato a chiederle di fare la nonna che porta e riprende i bimbi del primo e del quarto piano dalla scuola e dagli sport, ma hanno smesso, dopo quell’episodio di qualche mese fa, quando a detta loro, “lei esagerò sul serio”.
Eppure ogni volta che ci pensa la sua bocca si piega in un sorriso, e continua a non vederci nulla di strano: fece andare i bimbi sul suo terrazzo, gli fece togliere le scarpe e li fece salire nei vasi rettangolari sul pavimento alla base della ringhiera, in mezzo a quelle sterpaglie essiccate che sarebbero dovuti essere i suoi gerani. Poi innaffiò loro i piedini paffuti, che belli, invitavano a prenderli a morsi, e lei mordeva e loro ridevano. Si divertirono tanto. Si misero lì buoni ad aspettare di crescere. Anzi, quando cominciò a piovere erano ancora più contenti, perché così sarebbero cresciuti prima, e che gioia per lei guardarli attraverso la porta finestra del salotto, con quel sorriso che da anni non si ricordava di avere. Ci aveva scritto anche quello, nel suo taccuino digitale delle cose da fare una volta in pensione: prendersi tempo per tornare come era stata coi ragazzi del cortile, a giocare e annusare il terriccio bagnato nei vasi, dove mamma sbriciolava i fondi del caffè, che fa bene alle piante. Con le sue non aveva funzionato nemmeno quello.

E invece mammamia! Tutti arrabbiati con lei, i condomini. Non capiscono veramente niente. Le hanno detto che non avrebbe più dovuto né toccare né parlare con i bambini e nemmeno con le piante giù all’ingresso, che l’avevano sentita loro che ci litigava con le piante, che si credeva lei. Le apostrofava come fossero dei bimbi disobbedienti e le rimproverava se non avevano le foglie abbastanza lucide domandandosi chi fosse che le teneva in quel modo, quando invece erano proprio delle belle piante e godevano di ottima salute, mica come quelle del suo terrazzo. Si occupasse della burocrazia lei, che era l’unica cosa che sapeva fare bene, quella.
Un pensiero riguardo “Firmato: la resp. dott.ssa Tissen”