Pubblicato in: La romanticona

A lezione con i fantasmi – Laboratorio didattico su Shirley Jackson

di Silvia Ciurli

Da quando lavoro nelle biblioteche delle scuole, ho scoperto che molti ragazzi e ragazze che brulicano le medie sono appassionati di genere horror.

C’è chi cerca quello “che faccia paura paura”, chi quello “con misteri da risolvere”, mentre altri sono semplicemente attratti da tutto ciò che è soprannaturale, fumoso, avvolto da un alone di tamburellante inquietudine. 

Quale migliore occasione, allora, se non fare un laboratorio che assecondi l’inclinazione al mistero delle giovani menti con l’occasione di conoscere vita e opere di Shirley Jackson (una vera e propria donna difettosa ante litteram, anzi, anti bloggeram), autrice che è il risultato perfetto di tutta la combinazione di elementi che le nuove generazioni ricercano in un romanzo.

La nostra strega del Vermont deve aver interferito con le ironiche coincidenze della vita nel farmi iniziare il suo progetto il 14 febbraio, giornata di cioccolatini stantii che si improvvisano guru spirituali e rose indispettite abbandonate sul cruscotto della macchina per ore e ore.

Varcare la soglia della classe è stato come tuffarsi nel fiume Lete: ho dimenticato i miei nei, il fiato corto dell’attesa; tutta anima e cuore nelle orecchie e negli occhi di quei ragazzi e di quelle ragazze che mi guardavano con diffidenza, curiosità, spavalderia e grande desiderio di gettarsi la giornata scolastica alle spalle.
La mia voce rimbalzava sui muri mentre parlavo della vita di Shirley. L’ho riassunta in pochi punti salienti, curiosità sulla sua precaria salute mentale, il rapporto sofferto con la madre e la maniacale dedizione verso la scrittura (ogni giorno si impegnava a scrivere almeno mille parole). Scrittura che usava anche come strumento di conquista di diritti e libertà: durante la sua carriera universitaria, infatti, l’ipnotica autrice fondò The Spectre”, una rivista i cui articoli si occupavano principalmente di dare voce alla discriminata comunità afroamericana e al degrado in cui imperversavano gli studentati.
Non solo l’attivismo, però, fu il frutto della sua penna acuta: appena dodicenne vinse il suo premio letterario con la poesia “The pine tree”, per poi passare a racconti per bambini, autobiografici e non, e ai romanzi che la incoronarono come regina del genere gotico.

È impossibile parlare della poetica di Shirley Jackson senza citare le case: figlia e nipote di architetti, le abitazioni diventarono nei suoi romanzi il luogo perfetto per rappresentare la banale e apparente normalità in cui si cela il Male (come ne “L’incubo di Hill House”, da cui Netflix ha tratto una fortunata serie), dove il confine tra reale e surreale sfugge dalle sinapsi, in preda a un umorismo dissacrante e una nevrotica inquietudine. 

Inquietudine di cui potremmo trovare le radici nella monotona vita borghese di moglie e madre che Shirley avvertiva come il limite più grande alle sue mire di artista. Con una famiglia di quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze, due cani, quattro gatti, le rimaneva ben poco tempo da dedicare alla macchina da scrivere.
Questa sua frustrazione trovò sfogo in abuso di alcol, antidepressivi, anfetamine e barbiturici, sicuri complici della prematura morte per insufficienza cardiaca a soli quarantotto anni. 

L’argomento principale del laboratorio è stato la paura. Per qualcuno è “sentirsi piccoli piccoli”, per qualcun altro “un vuoto nella pancia”, o ancora “una minaccia immaginaria che piuttosto che difenderci ci limita”.
Per Shirley Jackson, invece, “la paura è la rinuncia alla logica, l’abbandono volontario di ogni schema razionale. O ci arrendiamo alla paura o la combattiamo; non possiamo andarle incontro a metà strada”.
Ci siamo chiesti se la scrittura possa essere un buon metodo per sfogarsi e analizzarsi e abbiamo deciso che sì, può esserlo, non tanto usando i classici fogli cartacei ma le note del telefono la cui rilettura è una pratica tremenda: i pensieri oscuri illuminati a led provocano il classico pudore di chi sta iniziando a conoscersi o di chi ha paura di farlo. 

Ho letto ad alta voce “La lotteria”, azione che ha trasformato la classe da una chiassosa mandria di giovani bufali in tremolanti pulcini appena nati. 

E alla fine ho posto la domanda: che ne pensate?

“A me ha spiazzato”; “Per me era fuori di testa”; “Sembra Squid Game”; “É ambiguo”. E poi, la regina delle risposte: “Non ho capito”.

Allora ho chiesto loro di scrivere qualcosa, cercando di provocare claustrofobica angoscia in un ipotetico lettore. 

Sono venuti fuori protagonisti appassionati di veleni che giocano a mescolare le mandorle e persone muoiono dopo averle mangiate; un corvo bianco – “perché così mi andava”, che trasforma i partecipanti a una sfilata di carnevale in zombie; un giardiniere che accidentalmente si amputa mezzo piede ma riesce comunque a rincorre la sua colf per ucciderla.

Applausi, risate, un pregio trovato per ognuno di loro. E badate bene, non per buonismo, ma per la grottesca ironia che è riuscita ad accendere Shirley Jackson in queste giovani menti, distanti decenni dalla sua epoca.

Quanto la campanella suona scappano tutti. “Volevo leggerlo anche io”, mi dice un ragazzo minuto, con la pagina del quaderno aperta su una calligrafia rachitica e precisa. Il suo racconto è scritto in prima persona e il protagonista è un sarto che sta lavorando nel suo laboratorio pieno di manichini. Nel silenzio della creazione, il sarto sente dei rumori: i manichini non sono più nudi, adesso. La loro asettica epidermide indossa pelle umana e l’insegna della bottega ha una nuova scritta rosso sangue. Questa è la nostra sartoria. 

Mi guarda. Nei suoi occhi nocciola galleggia fragile e nevrotica l’ansia per il giudizio in arrivo. É bravo, non lo dico mentendo.

Usciamo dalla scuola insieme, ci salutiamo. Lui viene finalmente accolto dai suoi amici. Cammino verso casa, leggera e piena di vita, pensando che i veri insegnanti sono i fantasmi, quelli di Shirley, quelli di ognuno di noi, e attraverso la scrittura possono tornare, non sempre con cattive intenzioni, anche per mano di chi ha ancora tutti i sogni – o gli incubi – incastonati negli occhi.

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