di Beatrice Galluzzi
Vengo da un periodo davvero avvilente, che è quello del rientro a scuola di mia figlia.
Non che avercela a casa tutta l’estate, e vederla scendere le scale al contrario come Regan dell’Esorcista, sia stato edificante. È solo che portarla all’asilo, attraversare il cortile, superare la soglia di entrata e recapitarla alla maestra di turno, implica il fatto che io debba incontrare altra gente. Altra gente vuol dire altre madri, altre maestre, e altri bambini– che a loro volta hanno altre madri, e altre maestre, altri nonni, zii e fratellini. Una ripetizione perpetua. Una scatola cinese del disagio. Dover salutare tutti, finanche sfoderare qualche sorriso, che altrimenti si passa da madre antipatica – giammai? – è quello da cui rifuggo, specialmente di prima mattina e con il freddo che c’è adesso. Per questo, ci mando mio marito. Lui va dritto al punto, lascia la bimba e arrivederci. È un uomo, questo gli è permesso. Nessuno si domanda perché un padre non saluta o non partecipa alla vita comunitaria. È ovvio, che non lo faccia. Le madri, invece, hanno anche questo scotto da pagare – tralasciamo in questa sede tutti gli altri, che non vogliamo mostrare i nostri gatti a nove code. Ma io lo rinnego, questo compito di buona cristiana, non solo perché non sono cristiana, ma anche perché non ricopro il ruolo di madre – e di persona – normale. Mi sono trasferita da una città come Roma, per andare a vivere su un cucuzzolo di una collina, dove assieme a me coesiste solo una comunità di cinghiali – e di sorci. Scappo dalla civiltà, dai contatti con il prossimo e dalla condivisione. Entrare in contatto con una collettività di altre genitrici è, per me, una cosa altamente pericolosa nonché potenzialmente mortale. Mi sento sempre in debito verso di loro, così operose, così efficienti, così combattive, mentre io non mi curo minimamente delle riunioni scolastiche, dei lavoretti, degli addobbi, delle questioni di vitale importanza – come i dossi davanti alla scuola o l’ora di religione – e mi metto anche a scrivere articoli di questo genere. Così, mi sono cucita addosso la lettera scarlatta. E, per questo, spero di non aver chiuso definitivamente con tutte le altre madri, che mi invitano alle feste di compleanno, che dicono passare a trovarle al parco, che mi danno utili consigli su argomenti disparati. Loro sono in buona fede e non sanno che non ho paura dei rettili, né dei ragni, né per giunta nemmeno dei sorci, ma mi ritraggo come una testuggine dinanzi al confronto, dato che io perdo, e tutto per colpa delle mie mancanze. Ma io voglio dire una cosa, a tutte le mamme che mi leggeranno: scusatemi. Non lo faccio apposta a essere una donna difettosa, altrimenti non mi sarei messa in testa di aprire questo blog insieme a altre sciroccate come me.
Ma c’è del buono anche in questo. Fidatevi.
Sembrava di leggere me stessa…
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Esilarante!!!!!a me non piace in generale neanche andare al parco con mio figlio… preferisco portarlo in spiaggia oppure ce ne stiamo a casa,anche se questo vuol dire che mi esaurisci con lui che lancia tutto per aria o che corre per tutta casa..però lo preferisco..
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