di Ilaria Petrarca
“Forse l’aspetto strano della mia natura può essere riassunto in un tratto: la necessità di continuare a cercare, accada quel che accada, nuovi eventi, e fuggire l’inerzia e la stagnazione.” Con queste parole Isabelle Eberhardt ci toglie dall’imbarazzo di definirla. Di aggettivi, comunque, gliene sono stati attribuiti diversi nell’ultimo secolo. Uno su tutti: “nomade”.
La prima parte della sua vita si svolge in Europa. Nasce nel 1877 a Ginevra, è figlia della figlia illegittima di un nobile russo sposata a un alto ufficiale dello zar che, dopo averlo cornificato con il precettore dei figli (anarchico e ateo) aveva lasciato la Russia per rifuggire lo scandalo. Piccolo particolare: si dice che il vero padre di Isabelle non fosse il precettore…
Nella Ginevra di fine ‘800 questo dettaglio avrà generato qualche pettegolezzo, ma non è riportato nessun guaio serio. Così, nella città svizzera la ragazza cresce, studia e dà sfogo alle proprie stravaganze. Idealizza l’Oriente, come di moda, e insieme a sua madre si converte all’Islam. Viaggia spesso in Nord Africa vestendosi da uomo e facendosi chiamare Mahmoud Saadi per essere più libera negli spostamenti (non sapete che la quarta classe di certe navi richiede uno specifico dress code?)
A vent’anni perde la madre, muore il precettore, un fratellastro si suicida. Siccome piove sempre sul bagnato, Isabelle progetta di sposarsi e trasferirsi in Nord Africa con un diplomatico armeno che finisce per accettare un impiego in Olanda. Non accettando il cambiamento di programma e non intendendo farsi crescere i capelli (pare fosse una delle richieste del promesso sposo), Isabelle manda all’aria il fidanzamento. Subito dopo, decide di partire da sola.
Vi state immaginando un’accanita femminista che in mezzo al mare fa il gesto dello Yonimudra? Niente di tutto ciò. I diari in cui Isabelle racconta i suoi viaggi in Nord Africa tra il 1900 e il 1904 si aprono con malinconia, sofferenza, tormento. “È tempo che capisca che non si può prolungare ciò che è giunto alla fine, né resuscitare ciò che è passato. Nulla può accadere due volte” scrive. “Devo imparare a vivere nel momento presente e non, come ho fatto finora, soltanto nel futuro, che è una fonte naturale di dolore.” Chi non si è fatta lo stesso discorso almeno una volta nella vita?
Isabelle si sta esponendo alla “difficile e rischiosa strada del viaggiatore” con una consapevolezza rara nella narrativa di viaggio maschile. Come molti personaggi, tuttavia, sa che non può tornare alla vita precedente, a Ginevra, a Marsiglia da suo fratello Augustin, in Europa. Vuole allontanarsi, “essere null’altro che un estraneo, uno straniero e un intruso. Questa è l’unica forma di beatitudine, sebbene amara, che il Mektoub [il destino] mi saprà garantire. Le gioie ambite da tutta l’umanità frenetica non saranno mai le mie.” Coerentemente con queste parole, i diari non parlano di amicizie femminili, i personaggi secondari sono membri della famiglia (per lo più i defunti), compagni di viaggio, amanti.
Su quest’ultimo punto Isabelle si discosta ancora una volta dallo stereotipo di genere: sceglie, non è mai scelta, non subisce nemmeno una delle sue decisioni amorose. Vive le sue esperienze, sembra anche in maniera disinvolta e poco accorta, scontrandosi con passioni (sospiro), delusioni (doppio sospiro) e disillusioni comuni a tutte (imprecazione liberatoria).
Infine incontra Slimene. Lui è un soldato algerino con la pelle scura e un sorriso gentile con cui trascorre notti appassionate sulle dune del deserto. “Il suo animo è ancora giovane, pensa che l’amore terreno sia eterno. Parla anche di cosa accadrà fra uno o sette anni. Che utilità avrebbe dirglielo [che non è così], renderlo triste o ferirlo? Tutto ciò accadrà da solo il giorno in cui le nostre vie inevitabilmente si separeranno”. Dite che è troppo pessimista, o che vuole farsi desiderare? Beh, credere che la loro sarà una relazione temporanea la porta dritta dritta al matrimonio e, al di là dei legami legali, l’amore di Isabelle verso Slimene diventa un sentimento assoluto. “Anche se sapessi che dopo di lui troverò qualcun altro che mi amerebbe altrettanto non lo vorrei, per la semplice ragione che sarebbe qualcun altro e non l’uomo che amo così totalmente, con così tanta passione e amore e tenerezza.”
L’eccezionalità della vita nomade di Isabelle Eberhardt si accompagna così a una femminilità del tutto ordinaria. L’amore modella la sua percezione della natura: quando Slimene è lontano, di stanza a Batna, lei racconta di passeggiate notturne nei cimiteri, alla luce della luna; in ospedale, ferita e sola, scrive che le dune “adesso hanno un aspetto di desolazione, sono morte”; quando parte per raggiungere il suo uomo incontra “cielo nero, notte grigia, un vento forte e ghiacciato da nord.” Appena arriva, magia delle magie, “ogni cosa rinverdisce di nuovo; gli alberi sono fioriti, il cielo è blu e gli uccelli cinguettano.” Stucchevole? Sì, oltre ogni aspettativa. Però glielo perdoniamo perché Isabelle ha centrato un punto cruciale nella vita di una Difettosa, ha trovato un compagno che la accetta per com’è e non intende cambiarla! “Slimene è due cose per me: amico e amante.” Niente trasferimenti al nord, niente indicazioni su come portare i capelli (non bastano già i commenti del parrucchiere, della vicina di casa, della cognata, della fruttivendola?) Anzi, la pazienza del compagno fa emergere in lei la volontà di migliorarsi: “devo imparare l’unica cosa davvero difficile per chi ha il mio temperamento, l’obbedienza (che naturalmente ha i suoi limiti e non deve sfociare nel servilismo), rendendo così la vita più facile a entrambi.”
Tuttavia, cambiare le è impossibile. Isabelle preserva un’identità forte e difende le sue idee con determinazione. È una cittadina russa naturalizzata francese, non religiosa ma convertitasi all’Islam, leale verso la Francia anche se è una convinta anticolonialista. La formazione cosmopolita e l’egocentrismo (in fondo, i diari sono suoi!) la rendono immune ai pregiudizi razziali e culturali; solo a Tenes, quando si sente discriminata perché non è sposata con Slimene, si lascia andare ai giudizi: “il nostro è un amore al di là della loro comprensione”.
Il suo stile di vita libertino e anticonvenzionale causa continue frizioni con le autorità locali. Isabelle fuma kef e foglie di platano (uno degli scarsissimi casi di consumo di platano di cui abbiamo testimonianza, tra l’altro!). Nel 1901 è vittima di un attentato che le autorità registrano come attacco alla cristianità; sulle colonne di un quotidiano lei replica di non essere mai stata né battezzata né cristiana, e che quello che ha subito è stato un attacco rivolto alla corrente islamica che ha abbracciato, la Qadryia. Questa – ops! – precisazione pubblica le costa l’espulsione dal Paese, dove tornerà una volta ottenuta la cittadinanza francese attraverso il matrimonio.
Partita nel 1900 per scrivere e non per indulgere nel dolce far niente (lo definisce proprio così), Isabelle procrastina nel primo periodo e nel susseguirsi di “oggi no, comincio domani” riflette molto e legge altrettanto (Loti, Dostojevski). Col passare dei mesi la sua scrittura matura. Lei si ammala ma la sua salute letteraria migliora. La sua fede religiosa si rafforza, è convinta ci sia una vita dopo la vita e che “il nostro viaggio qui è un processo stabile di sviluppo umano verso un’altra vita.”
Scrive quattro diari, diversi romanzi, numerosi articoli. Muore nel 1904, a 27 anni, durante una violenta alluvione nel deserto di Ain Safra. Il suo corpo è stato ritrovato dopo giorni, e indossava i panni di Mahmoud Saadi.