di Beatrice Galluzzi

Il romanzo dʼesordio di Anja Trevisan è uno squarcio nella terra florida dellʼinfanzia; unʼimmensa fenditura che ne inaridisce la linfa, scagliandoci in un territorio insondabile, dove scompare il profilo vivido dellʼintegrità e affiora il magma dellʼeterno castigo.
Già dalle prime righe di Ada brucia – storia di un amore minuscolo (Effequ, 2020) ci troviamo incalzati da una voce narrante che non è quella della vera protagonista, bensì il risvolto oscuro di ciò che rimane nel mondo, ossia quella parte che dovrebbe farle da riparo e invece è un orco fiabesco, con gli occhi perennemente carichi dal pianto della sua commiserazione. Rino, un uomo avvenente ma solitario, che costruisce orologi per sconfiggere la sua avversione contro il tempo, lʼinesorabile progressione delle giornate, delle stagioni e delle età, che lui spera di fissare una volta per tutte il giorno in cui per la prima volta vede Ada. Folgorato da una piccola mano grassoccia che spunta da un passeggino; la mano di una bambina che allora, ancora nelle braccia di sua madre, si chiama Beatrice.
“Mi dispiace, farfuglia tra le lacrime, come a volersi giustificare col mondo per qualcosa che non ha ancora fatto; mi dispiace, mi dispiace.
Pian piano si ricompone e riesce ad alzarsi, con un poʼ di fatica dovuta allʼemozione, e a raggiungere il tovagliolo su cui si soffia in naso. Si asciuga il viso con la parte pulita. Il mondo fuori è sempre lo stesso: gli alberi muovono le foglie esattamente come ieri. Ma no, neanche la natura che ha sempre amato così tanto riesce a distrarlo. Gli alberi sono gli stessi, sì, ma lui è diverso. E capisce profondamente che deve ritrovare quella mano. Deve vedere chi è.“
È così che inizia il pellegrinaggio dantesco, singhiozzante, tra gli impervi meandri di un discernimento che Rino mette a tacere con solitari assensi del capo; mentre vaga da una sponda allʼaltra dei propositi che intende mantenere, è un Caronte che sabota la sua virilità, diventando un mero esecutore dei suoi intenti.
“Rapire una bambina, farlo sul serio, chi lʼavrebbe mai detto. Aveva pensato di sequestrarne una, dio, si vergogna molto ad ammetterlo persino a sé stesso, ma è così. Però lʼavrebbe restituita. Ma non sarebbe stato giusto, e allora non lʼha fatto. Lui non farebbe soffrire mai nessuno. Ma Ada non è solo una bambina. La ama. Mondo, persone, Dio, se ci sei; a lui dispiace, ma non può farci niente. E se la ama, è giusto che stiano insieme.“

Eppure il fiume contaminato in cui naviga Rino non è fluido, nella sua malvagità, non è puro, ma smussato dal desiderio di preservare la freschezza di una Beatrice bambina, che bambina deve rimanere e quindi non si tocca. Ada diventa il palindromo della giovinezza, come ossesso lo è dellʼoblio di Rino. La piccola Beatrice viene immolata contro natura su un altare votivo, incastonata come una Madonna in una teca da venerare.
Reclusa allʼinterno di mura che non può valicare, Ada cresce. A farle compagnia ha solo il suo rapitore – colui che chiama Bapu, la sua prima parola – e i piccoli insetti che si azzardano a valicare i confini della casa.
“Amore?”
“Mh.”
“Cosa disegni?”
“Non si vede?”
Rino guarda meglio ma no, non si vede. Ada ripassa i contorni con il nero, cosa che le piace molto fare, e a unʼestremità del tubo traccia due righe.
“Non vorrei sbagliare…”
Ada sorride, normalmente riderebbe, ma ora è troppo concentrata sul fare meglio possibile le righe nere.
“Un bruco”.
Rino è ancora più confuso. Ada comincia a disegnare le zampette, ritraendole come piccolissimi segni neri sotto a quella che dovrebbe essere la pancia, pensa lui, dellʼanimale.
“Lo sai che i bruchi poi volano e diventano farfalle?” le chiede
“Sì che lo so”.
Sicuramente è una scelta unica, pensa Rino. comunque, niente di cui preoccuparsi.
“I bruchi però vivono di più quando sono bruchi perché quando sono farfalle muoiono subito” gli spiega lei, poi smette di disegnare zampe che è quasi alla fine e lo guarda.
Lʼumana – e disumana – trasposizione dei due protagonisti, che la Trevisan delinea con sfaccettature sconvolgenti per la loro veridicità, ci consente un inspiegabile trasporto per entrambi, lʼimmedesimazione esemplare per lʼaccanimento ossessivo che sia Ada che il suo carnefice hanno lʼuno nei confronti dellʼaltra.
Una dipendenza e una rabbia con le quali nostro malgrado dobbiamo fare i conti, piegati dal fallimento nel non poter sabotare lʼevolvere della storia; condannati a doverne invece contemplare le ombre, persi in una foresta fatata e perennemente affacciati alla finestra di una baita.
Un romanzo che non si può scordare mai, Ada brucia, perché ci lascia prigionieri di un rifugio accogliente e sperduto, con la chiave sempre a portata di mano, ma così assuefatti dalla dipendenza da non essere in grado di trovarla.
PERIODO IN CUI LEGGERE “ADA BRUCIA”
Questo è un libro che necessita di una corazza di cui non troverete mai le misure. Quindi leggetelo domani, leggetelo ora, perché quello che proverete crescendo con la protagonista è una sensazione vi portate appresso da quando siete nati: la paura di essere portati via dal presente, di svanire assieme al vostro nome, per poi pregare di non essere ritrovati.
COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA
Mentre leggete Ada brucia mettete su i Marillion, insistendo su pezzo di piano di “Levender“, e questo perché quel genere di rock progressive che sembra sfumare verso gli anni ʼ80 – periodo in cui comincia la storia – è carico di residui di malinconia che hanno la pretesa di congelarsi nel tempo. E ci riescono.
“I was walking in a park
dreaming of a spark
when I heard the sprinklers whisper
shimmer in the haze of summer laws.
Then I heard the children through the rainbows,
they were singing a song for you.”