di Ilaria Petrarca
“Vi piacerebbe fare il giro del mondo?”
“È il mio sogno”
“E osare di più?”
Léonie d’Aunet è stata la prima donna a oltrepassare il Circolo Polare Artico nel 1838. Considerando che nell’ultimo anno io ho superato al massimo i confini amministrativi del mio Comune di residenza, non ho resistito alla tentazione e ho letto il suo “Viaggio di una donna allo Spitzberg”, ossia qui:
Spitzbeg o Spitzbegen, come la si chiama oggi, è l’isola maggiore delle Svalbard, una distesa di roccia e ghiacci nel Mar Glaciale Artico. Scoperta nel 1596, fino al ‘700 vi si giungeva seguendo mappe poco accurate. Ripetute spedizioni scientifiche studiarono la zona portandovi idrografi, botanici e, siccome la fotografia ancora era poco diffusa, anche dei pittori.
Nel 1838, in occasione di una cena parigina, Léonie d’Aunet viene a conoscenza di una corvetta in partenza per lo Spitzberg che cerca un pittore di bordo.
Léonie ha 18 anni ed è una giovane ben educata promessa sposa a un artista quarantenne. Cresce lontana dalla famiglia, i cui membri vivono tra gli Stati Uniti, il Canada, il Sudamerica e l’Europa. Ha diversi zii arruolati nella Legione straniera, nelle campagne napoleoniche, in Africa e in Russia. La ragazza, cresciuta nei salotti parigini dietro l’apparenza elegante e mondana nasconde un gran desiderio di avventura e la voglia di mettersi alla prova in un mondo più ampio. Così, quella sera, fa ingaggiare il futuro marito a condizione di poterlo accompagnare.

La avvertono che alla sua età dovrebbe andare ai balli, mica al Polo, e che tornerà imbruttita da quei luoghi selvaggi. Lei fa spallucce e riempie la valigia di abiti da uomo, comodi e caldi. Forse influenzata dal nuovo vestiario, nel libro si definisce “voyageaur” e mai “voyageuse”.
Un ultimo ostacolo è imposto dalla legge francese, che vieta di far salire una donna su una nave di stato. Per aggirare la norma, lei si imbarca a Hammerfest, nella Norvegia settentrionale.

L’itinerario, dunque, include due tipologie di viaggio: da Parigi a Hammerfest è un tipico Grand Tour dell’epoca; da Hammerfest allo Spitzberg è un’esplorazione ai confini del mondo.
Nei primi Paesi che visita, cioè Olanda Danimarca e Svezia, Léonie visita musei, incontra artisti, partecipa a eventi mondani come fosse a casa. Risalendo la Scandinavia il paesaggio muta e lei rimane incantata dal fascino vago, tenue, misterioso, indefinibile del Nord che chiama “poesia della nebbia”… Salvo poi realizzare che “più vado avanti e più sento allontanarsi da me il sole e la civiltà, che è un altro sole”. La natura, nel frattempo, esplode nella sua grandiosità: foreste verdi e folte, ruscelletti, “come un paesaggio svizzero con più verde o un paesaggio scozzese con più magnificenza”.
Dopo pochi giorni, Léonie è già disgustata dal salmone e dal cibo in generale. Non fa in tempo a scrivere che la Norvegia è “serena e umile, senza bagliori, senza burrasche” che la carrozza nella quale viaggia precipita in un burrone lungo un fiume. Léonie si salva grazie ai rami degli abeti che si infilano nelle ruote.
Passata la paura e senza ferite gravi, riprende il percorso e “gaard” dopo “gaard” (le tradizionali fattorie locali), attraversa scarpate e crepacci, un altipiano innevato con un lato ghiacciato, fino ad arrivare a Drontheim. Le sale la febbre, è piena di lividi, dorme poco e male in uno sgabuzzino, ma appena trova un guardaroba si ringalluzzisce e riempie due pagine di descrizioni degli abiti.
Léonie è la prima parigina che giunge a Drontheim, ed è anche la prima che si imbarca per Hammerfest, l’ultimo centro abitato d’Europa. Una curiosità che ci racconta e che dà la misura delle scoperte scientifiche di quel periodo, è che la navigazione da Drontheim a Hammerfest è scesa da 30 a 8 giorni grazie a carte geografiche più precise, le quali segnalano tutti gli scogli nel percorso.
Il 19 giugno, alle quattro di sera, la nostra Scappata di casa supera il Circolo Polare Artico a 66° di latitudine nord.[1] L’arrivo del battello in una zona tanto remota è per Léonie come un evento mondano, ma poco elegante. Le donne, infatti, le appaiono “una via di mezzo tra un attaccapanni e uno scrigno”.
Le tappe successive sono le isole Loffoden, ossia una spiaggia di ciottoli, essiccatoi per i merluzzi, catapecchie di legno. Tutto è nero, grigio, bianco, come un disegno a carboncino; Hammerfest, dove Léonie si accorge che il sole non tramonta mai, nemmeno a mezzanotte, ma mancano verde e fiori: “è molto singolare vedere ogni mattina le donne fare salire le capre sul tetto con una scala, affinché le povere bestie possano brucare un po’ di cibo fresco”.

Il 17 luglio Léonie lascia Hammerfest e a fine mese giunge allo Spitzberg. “L’isola è situata tra il 77° e l’81° di latitudine Nord. È larga sessanta leghe e lunga circa trentacinque. Ha pressappoco la forma di una grande N, la cui seconda gamba è molto frastagliata. È divisa da due fenditure così profonde, l’una a Sud e l’altra a Nord, che non è mai stata esplorata abbastanza a fondo per sapere se c’è un collegamento tra i due lembi di terra. Alcuni marinai sono portati a credere che lo Spitzerg sia formato da due isole saldate fra loro da un largo banco di ghiaccio: ma chi andrà mai a controllare?”
Accanto ai dettagli del paesaggio[2] osserva gli usi delle popolazioni locali[3]. Al contrario, spende poche parole sugli eventi che accadono a bordo della corvetta. Riporta alcune scoperte della spedizione scientifica, come dei fossili che si trovano anche nei tropici, e un cimitero di pescatori denominato “penisola delle tombe”.
Le sue condizioni psicofisiche sono difficili. A causa del cambiamento di abitudini, l’asperità del clima, e (dice lei) il troppo cibo grasso, si sente agitata e di vivere in un incubo. Rientrando a Hammerfest ha un’infiammazione allo stomaco, è infastidita dal maltempo e dalla melma che incontra ovunque cammini. Poco alla volta, scendendo verso sud, assiste al progressivo ricrescere del verde: “piante che, quaranta leghe più a Nord, avevamo visto esili, gracili, abbarbicarsi a un suolo umido, le rivedevamo ora sulle rive dell’Alten, grandi, forti, rigogliose e fiorite”. Le fatiche si alternano alle meraviglie improvvise, come lo spettacolo dell’aurora boreale[4].
In Svezia, si libera dell’“ibrido e orribile abbigliamento maschile.” Per combattere il freddo indossava pantaloni da uomo, una camicia di panno grezzo, una sciarpa rossa di lana e una cintura di cuoio, un paio di stivali imbottiti di feltro e un berretto da marinaio. Quando saliva sul ponte, non contenta, aggiungeva un giaccone con il cappuccio. Si era anche tagliata i capelli, impossibili da pettinare. “Aggiunte e asportazioni concorrevano, come si può intuire, a rendermi particolarmente brutta”. Confessa di aver provato “un immenso piacere nell’indossare un bel vestito pulito con grandi balze, e un leggero cappello di crêpe ricoperto di fiori, pieno di quella grazia di cui le nostre modeste parigine hanno il monopolio.” Tornata al vestiario parigino, come prima cosa non va a un ballo ma sottoterra, a esplorare le miniere di rame di Fahlun.
Prima di rientrare in Francia passa per Berlino e Potsdam, dove visita musei e palazzi. Si sente un “viaggiatore strapazzato”, ma queste città le appaiono noiose, e l’unico stimolo è l’acume del barone Von Humboldt, che la accompagna. “Ho visto talmente tanti paesi e mi sono emozionata davanti a spettacoli della natura così grandiosi che, sotto l’influsso dei miei recenti ricordi, resto indifferente in presenza di molte cose generalmente ammirate: sono senza vigore, oramai.”
E meno male, perché senza vigore fa due figli, si separa dal marito e intraprende una carriera letteraria di successo: oltre al diario di viaggio è autrice di due romanzi, tre novelle, un dramma teatrale e dei feuilletons comparsi su quotidiani a tiratura nazionale. Usa sempre il suo nome e il cognome da nubile, tranne che nelle rubriche di moda o costume che firma “Thérèse de Blaru”.
Dal 1838, anno in cui venne effettuata la spedizione, al 1854, anno in cui Hachette pubblica “Viaggio di una donna allo Spitzberg”, il testo subisce almeno tre riscritture. Aleggia il dubbio che siano state opera di Victor Hugo, amante della nostra Scappata di casa. Questo spiegherebbe perché non c’è una sola frase sul marito di lei, ospite sulla stessa corvetta! Di sicuro sappiamo che Hugo dedica più di un verso a Léonie, e riconosce in lei (e forse da questo viene affascinato) la doppia natura di un’avventuriera di buone maniere, ben rappresentata da un nome che “inizia come leone e finisce come armonia”.
[1] “Attorno al Circolo Polare le montagne della costa diventano più alte e più scoscese; la neve, che vicino a Drontheim appariva a chiazze, invade a poco a poco tutti i pendii; la vegetazione si riduce, a rari intervalli alcune betulle sottili e prive di foglie mostrano le cime arruffate, come enormi parrucche alla Luigi XVI; solo il lichene impiglia le tenui radici nei crepacci delle rocce consumate dalla neve.”
[2] “Non si immagina forse questo luogo, in cui tutto è freddo e inerte, come avviluppato in un silenzio profondo e lugubre? Ebbene è tutto il contrario! Niente può rendere il formidabile tumulto di un giorno di disgelo allo Spitzberg. Il mare, disseminato di ghiacci aguzzi, sciaborda rumorosamente, i picchi elevati della costa slittano, si staccano e ricadono nel golfo con un chiasso spaventoso; le montagne scricchiolano e si fendono; le onde si abbattono, furiose, contro le sporgenze di granito; gli iceberg, frantumandosi, emettono crepitii simili a raffiche di fucile; il vento solleva turbinii di neve con rauchi ruggiti; è terribile e magnifico! Sembra di sentire il coro degli abissi nel mondo antico preludere a un nuovo caos.”
[3] La Lapponia, per esempio, offre soltanto due paesaggi: pianure sassose e pianure fangose. Anche i Lapponi, ai suoi occhi, sono individui tutti uguali. Nessuno canta ma fumano e puzzano, anche le donne. Curiosamente, la sua attenzione ricade sulle culle dei bambini, che giudica molto graziose. Dalla descrizione che ne fa sembrano antesignane della funzionalità IKEA: fanno da mobile, vestito e nido tutto insieme.
Drontheim, invece, “è una città di legno che va a fuoco quasi ogni dieci anni. Gli abitanti si sono regolati di conseguenza; fanno loro la parte del fuoco e, a giudicare dalle loro case, non la fanno troppo male.”
Sugli abitanti di Hammerfest scrive: “Ogni anno, durante il disgelo, grossi blocchi di roccia si staccano dai monti e rotolano fino alle case; gli abitanti di Hammerfest si sono abituati a questo pericolo inevitabile e non si spaventano: non appena sentono gli scricchiolii nella neve, si ritirano verso il porto e quando la terribile valanga è caduta ritornano alle loro case, sempre che non siano state distrutte”.
[4] “Dormivo profondamente sul mio giaciglio di paglia, quando mi chiamarono per vedere l’aurora boreale. Fui pronta in un istante e vidi uno dei più magnifici spettacoli del mondo. Nel cielo nero inizialmente si formò all’orizzonte una scintilla di luce pallida, del tutto simile all’aurora. Pian piano la luce si diffuse fino a occupare buona parte del cielo. Dal punto centrale si irradiavano diversi fasci luminosi e mobili, che prendevano ogni genere di forma: prima sembravano lingue ardenti, poi serpenti di fuoco e si intrecciavano in mille modi con un movimento lento e continuo. Nel momento in cui il chiarore divenne più intenso, il cielo fu coperto da innumerevoli spirali di fiamme ritorte che si agitavano come pennacchi al soffio di un vento misterioso.”