di Beatrice Galluzzi

Quando il trailer sul Cecil Hotel è apparso sulla mia homepage di Netflix, ho capito che la piattaforma si è allineata sulle mie preferenze, fatte di storie vere che si cancerizzano attorno a drammi irreparabili; esistenze amputate senza alcun mandante che non sia la sorte, quindi più vicine possibile alla realtà.
Eppure, in una serie come “Sulla scena del delitto: il caso del Cecil Hotel”, si parla di vicende difficili da concepire come realmente accadute – se non, per lʼappunto, seguendo la rigorosa documentazione mediatica e scientifica di cui si fa carico un documentario true crime.
Non cʼè alcun preliminare allʼatmosfera disturbante del primo episodio della serie. Siamo scagliati contro le pareti fatiscenti di questo hotel di Los Angeles, il Cecil, la nostra attenzione deviata sulla sua nomea oscura; scorci di cronisti che vanno a nozze con lʼennesimo crimine consumato fra le sue mura, inquadrature traballanti, un ex-ospite, quasi divertito, che ci dice: “Il Cecil? Volete sapere del Cecil? Accidenti, da dove comincio?”
Ecco, Joe Berlinger – già documentarista controverso di “Crude” e “Il caso Ted Bundy” – sa bene da dove cominciare. Spettatori delle quattro puntate sul Cecil, inanellate lʼuna allʼaltra come parti di una catena, veniamo contagiati da un voyeurismo magnetico, tanto da farci sentire in colpa.
Perché la storia, in realtà, è incentrata su una scomparsa, quella di Elisa Lam, e si risolverà dopo infinite piroette tra risvolti criminali e parapsicologici, lasciandoci del tutto increduli dinanzi allʼunica risoluzione a cui non avevamo pensato.
Facciamo un passo indietro, rapidissimo, per aggirare il nucleo senza svelarne lʼamalgama: siamo nel febbraio del 2013, Elisa Lam è una studentessa canadese, ha ventidue anni, è in vacanza a Los Angeles e sceglie il Cecil perché economico. Probabilmente sottovaluta la pericolosità del quartiere – Skid Row, uno dei più malfamati della città – e, prima di finire il suo soggiorno, scompare. Elisa aveva parlato del suo viaggio in California su Tumblr, dove cʼera chi la seguiva per le sue frasi poetiche, ma non è per questo che la sua sparizione scatena un interesse fuori dal comune, accendendo su di sé luci deformanti come quelli dellʼalbergo.

Un filmato. Ecco cosa rimane di lei. Una ripresa delle telecamere di sicurezza che dura quattro minuti, in cui Elisa è in ascensore e parla con il vuoto; gesticola, spinge tutti i bottoni facendo bloccare la porta scorrevole; oltrepassa la soglia ripetute volte, esce dallʼinquadratura per non rientrarvi mai più. Il giorno dopo il mancato check-out, la sua camera viene svuotata dagli oggetti personali – così come da regolamento del Cecil – e quando le forze dell’ordine arrivano sul posto non hanno niente su cui indagare. La diffusione online del filmato è un tentativo di accelerare le indagini. Gli investigatori sperano che qualcuno riconosca Elisa, invece il tutto si trasforma in una caccia grottesca alle presenze soprannaturali dellʼalbergo maledetto da decenni. In poche ore il filmato ha milioni di visualizzazioni, e gli americani si appassionano al caso fino a farlo sfociare in ossessione collettiva. Nella docuserie vediamo i seguaci di Elisa con gli occhi accesi dalla frenesia quando parlano di lei e dellʼascensore: ne conoscono ogni millesimo di secondo, lo hanno studiato migliaia di volte, e ognuno di loro ha unʼopinione diversa: qui è stato tagliato, qui lei parla con un fantasma, qui si intravede una scarpa che non è la sua.

Il fulcro di tutta la narrazione, quindi, dovrebbe essere Elisa Lam – in effetti, sono ipnotici sia il video che il mistero che lo avvolge – eppure cʼè lʼoccasione mancata di puntare qualche riflettore in più sullʼallora direttrice dellʼhotel, Amy Price, che avrebbe dovuto supervisionare sui ripetuti crimini che si svolgevano al suo interno. È lei, infatti, che dichiara: “Il Cecil era il mio regno. Io lo chiamavo lo zoo” e, con altrettanta candidezza, descrive il suo secondo giorno di lavoro come “Quello in cui trovai il primo cadavere”; fa una pausa, guarda a lato della telecamera, ammette di aver chiamato la polizia innumerevoli volte – anche tre al giorno – per violenze domestice, overdose, risse, aggressioni, accoltellamenti e suicidi. Ecco, tutto questo, per Amy Price, fa parte di quelle che chiama le “difficoltà particolari” del suo lavoro.
Costruito negli anni ʼ20 per essere un albergo sfarzoso, il Cecil decade durante la Grande Depressione; la sua hall rimane lʼallettante anticamera di un inferno con 700 stanze, dove i decessi e delitti inspiegabili cominciano subito, finché gli ospiti e i residenti diventano solo ed esclusivamente persone disturbate, killer e molestatori; dietro le porte chiuse delle stanze decine di donne vengono violentate, picchiate e uccise, e il tutto rientra unʼignobile routine. Ma il passato funesto del Cecil non era noto a tutti, di certo non a Elisa Lam, residente a Vancouver, come a non saperlo erano due coniugi del Regno Unito che trovano unʼofferta online, si recano nellʼhotel losangelino, e finiscono per dare involontariamente una svolta alle indagini sulla sparizione della ragazza.

Che cosa lega questo documentario alla quinta stagione di American Horror Story si intuisce dalle prime scene della serie di Ryan Murphy, il cui hotel si chiama Cortez – e, guarda caso, si trova a Los Angeles – ha la stessa struttura, e una hall fin troppo simile, altrettanto sfarzosa e altrettanto ingannevole; tra le sue mura alloggiano tossici, maniaci e assassini; le persone si lanciano dalla finestra, muoiono di overdose, si uccidono a vicenda sono sotto gli occhi di tutto il personale, che non fa una piega. E se si avessero altri dubbi – Murphy non ha mai ammesso esplicitamente la connessione tra i due hotel, nonostante abbia detto di essere rimasto folgorato dal video dellʼascensore – si può sempre guardare lʼepisodio 4 di American Horror Story-Hotel, ovvero “La notte del diavolo” – scritto da Jennifer Salt – dove compare il serial killer Richard Ramirez the Night Stalker che nel documentario si dice abbia alloggiato proprio al Cecil.
Ma a ribaltarsi, in American Horror Story – Hotel, è il ruolo della protagonista – o, meglio, delle protagoniste – nonostante la grande assenza di Jessica Lange, figura centrale delle precedenti stagioni. Come in altre opere di Ryan Murphy, le donne che hanno subito traumi e vessazioni acquisiscono la capacità di seminare altrettanta sofferenza; sono al centro del gioco, ne decidono ogni regola e la infrangono, se necessario, per consacrarsi vincitrici. La Contessa dellʼhotel – interpretata da Lady Gaga – è padrona di ogni anima in pena che vi alberga, ed è una carnefice talmente ammaliante da far chiamare la morte alle sue vittime; vestiti e trucco – in questo come negli altri American Horror Story – sono caratterizzati da un gusto estetico che sfocia nellʼultraterreno. La costumista Lou Eyrich riesce a incorniciare la Contessa in un quadro devozionale dove, tra laghi di sangue, spiccano abiti verde brillante, strascichi dorati e copricapo stile Charleston (nella figura di seguito alcuni bozzetti dei costumi). Le spalle scoperte, i copri capezzoli di pailettes, le orge, gli uomini asserviti della Dea – tanto sexy fino da essere commoventi – restituiscono alla visione un piacere sordido e appagante. Ma, più di tutti, a compiacerci è la vendetta. La Contessa si rifà sul mondo per sopravvivere alla sua tragedia personale e questo non ha niente a che fare con la giustizia, anzi, è tutto il contrario – lo vediamo bene negli episodi 9 e 10, rispettivamente “Lei vuole vendetta” e “Lei si vendica”.

A dare potenza alla Contessa – e a sporcarsi davvero le mani – ci sono le sue controparti, antieroine sfaccettate e prepotenti: Sally – Sarah Paulson – una tossicodipendente prigioniera delle stesse mura in perpetuo, con addosso una pelliccia arruffata, gli occhi perennemente rigati di lacrime e mascara. Sally ha quella che la Contessa definisce “sindrome dellʼabbandono“, e invece di rimanerne soggiogata trae godimento dal torturare gli ospiti, cucendo i loro corpi dentro i materassi; e Liz Taylor, la barista transgender – Dennis OʼHare – che la Contessa trova a vagare per i corridoi quando è ancora padre e impiegato, e decide di modellare a sua immagine e somiglianza in uno slancio di love bombing – in questo Ryan Murphy strizza lʼocchio al suo meraviglioso Pose; personaggio sorprendentemente sadico è la receptionist Iris – Kathy Bates – madre soffocante che pur di stare accanto al figlio – compagno della Contessa – uccide studentesse e tiene prigionieri bambini; e, guest star, Chloë Sevigny, ovvero Alex, una pediatra con buone intenzioni, che alla fine soggiace allʼaria mefitica dellʼhotel.
Nel mondo vero, la vicenda di Elisa Lam ha una risoluzione tanto sorprendente da rendere più plausibili i fantasmi del Cortez. Gli sviluppi dalla serie sul Cecil ci lasciano un ronzio nella testa, ricordo del fatto che la scienza, o i poteri occulti, o i meccanismi in cui non veniamo tirati in causa noi mortali potrebbero non essere sufficienti a metterci in pace con il sonno. Facciamo allora che siano state le presenze soprannaturali a rapire quella povera ragazza una volta uscita dallʼascensore, e che la Contessa, e le altre anime dannate del Cortez, ne dominino il ricordo per vendicarla, ancora e ancora.
Ps. di American Horror Story 5 non guardate il trailer ma questo frammento della prima puntata, estremamente pop, in cui la Contessa va a caccia, e che rappresenta lʼapoteosi dellʼatmosfera, della musica e dellʼestetica di tutta la stagione – la canzone che ascoltate, non caso, è degli She Wants Revenge.
http://elisa-lam-blogs.blogspot.com
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