Pubblicato in: Letture Incolte

La casa infestata da noi

Nadia Terranova e Shirley Jackson ci raccontano i fantasmi

di Beatrice Galluzzi

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Quando ho aperto le pagine del libro di Nadia TerranovaAddio Fantasmi” (Einaudi, 2018) ho avvertito la presenza ingombrante di una casa, in una prospettiva del tutto inusuale. Assieme al tetto, nelle prime righe sembravano andare in frantumi anche le edificazioni della protagonista “Sì, sapevo che il tetto stava crollando – aveva cominciato a crollare fin dalla mia nascita, non aveva fatto che sgretolarsi e piovere in forma di polvere e calcinacci per tutta la vita che avevo vissuto lì dentro – ma non ne ero in alcun modo responsabile, non si ha colpa per le cose che non vogliamo ereditare e abbiamo già ripudiato”. Scavalcando l’allegoria, l’immagine di questo disgregamento mi è arrivata in modo feroce, provocandomi una nostalgia totalizzante. Ognuno di noi, ho pensato, proviene da una casa come quella: un edificio fintamente solido, un involucro labile che ci si porta appresso in ogni trasloco; un cappello di mattoni che funge da riparo malandato e non riesce a impedire all’acqua di insinuarsi, agli spifferi di passare tra le tegole, ai rumori di disturbare il sonno.

Nella casa di Ida, la voce narrante, i fantasmi sono una linea sotterranea e onnipresente: il capofamiglia scompare, tempo prima, portando con sé anche lo spettro di chi resta l’uomo che era stato mio padre guardava la nostra vita e avrebbe continuato a farlo per sempre. Si infiltrava nei tubi che non avevamo riparato […]”; “La mancanza di mio padre si era trasferita di sopra, sul tetto, mentre sotto si recitava il teatro di un’unica litania […]”. Quello che fa la protagonista – tornando nella sua terra, tornando nella sua stanza, tornando tra le sue cose – è quello che, in fondo, fanno molte delle persone che si allontanano dal luogo dove sono cresciute, per poi ripresentarsi all’uscio, sopraffatte dall’evidenza che le cose non siano cambiante affatto, e non abbiano nemmeno mutato forma. “Gli oggetti non sono affidabili, i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni.”

Ad avermi colpito di “Addio Fantasmi”, oltre a una scrittura talmente affilata da non percepire l’affondo della lama, è stato il degrado dei muri, l’usura degli embrici, le tracce di umidità. Un ambiente che non si può isolare da se stesso, una struttura – e un’interiorità – sordidamente permeabile: “Non importa, ci teniamo l’acqua, avrei voluto dire io, l’abbiamo sempre tenuta e la terremo finché campiamo, è tutto quello che ci rimane di mio padre, sembra stonato anche a lei? In Sicilia, isola senz’acqua, dove con la siccità bisogna fare sempre i conti, dove si litiga sugli acquedotti e ancora nessuno ha trovato la soluzione ai rubinetti che si asciugano ogni sera, noi dall’acqua non eravamo mai state lasciate in pace”.

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È stato per caso che, mentre leggevo “Addio Fantasmi”, mi è stato regalato il romanzo “Lizzie” (Adelphi, 2014). (Ecco a te il genio di Shirley Jackson, mi ha detto la mia accorata dispensatrice di libri, una che credeva di essere una strega, una che ci andava pesante con le pillole, una che voleva scrivere di più, una che aveva quattro figli). Una che aveva l’ossessione per le case – le avrei detto io, dopo aver letto anche “Paranoia” e “L’incubo di Hill House” – una che ha aperto “Lizzie” con la descrizione di un edificio che crolla, non dal tetto ma dalla base:Anche se il museo godeva di una notevole fama in quanto sede di sapere immenso, le sue fondamenta avevano iniziato a cedere. Così si era prodotta nell’edificio un’inclinazione verso ovest, bizzarra e fastidiosamente vistosa […]”. Una che, nell’incipit de “L’incubo di Hill House” ha focalizzato l’attenzione di nuovo sulle fattezze di casa: […]i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola.”  E che, all’inizio del secondo capitolo dello stesso romanzo, ha proseguito con uno sguardo angoscioso sull’architettura dell’edificio, fulcro assoluto della sua infausta destinazione: “L’occhio umano non può isolare l’infelice combinazione di linee e spazi che evoca il male sulla facciata di una casa[…] la facciata sembrava sveglia, con le finestre vuote e vigili allo stesso tempo e un tocco di esultanza nel sopracciglio di un cornicione […] quella casa, che sembrava aver quasi aver preso forma da sola.” I fantasmi, a Hill House, non si vedono, eppure appaiono in ogni riga, come accade nel libro della Terranova. Entrambe le scrittrici ci portano in case che respirano, con tubi al posto delle vene, stanze anziché organi, muri come pelle. “Una casa madre,” dice Luke, il ragazzo che eredita Hill House, “la madre di tutte le case, una padrona di casa, una casa padrona.” Ida, in “Addio Fantasmi”, arriva a una conclusione altrettanto evocativa: “Capii in quel momento cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo”.  E da cosa esiste riparo, quando la solidità non si misura dalla consistenza delle pareti e l’integrità dalla chiusura a doppia mandata delle porte?

Che alle presenze oscure si voglia dire addio oppure, al contrario, si cerchi di immortalarne la presenza corporea, leggendo questi libri si riesce a sentire che esse non sono altro dall’involucro che le contiene, soprattutto se quell’involucro è sovrapponibile a noi: non detentori di qualcosa che si può destrutturare, non gli spettatori di un decadimento materiale, non i proprietari di una casa ma la casa stessa.

PERIODO IN CUI LEGGERE “ADDIO FANTASMI”

Quando vi sentite spiazzati dalla malinconia, e continuate a nutrire dei dubbi sulla validità delle vostre scelte passate o avete dei rimpianti nei confronti delle persone, delle cose – e delle case – che vi siete lasciati alle spalle. La lettura di questo romanzo vi aiuterà a metabolizzare i ricordi sospesi, per poi poterne fare a meno.

COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA

L’album “Meds” dei Placebo, gruppo dall’inconfondibile sound nostalgico ma dal ritmo incalzante. In special modo – da ascoltare a ripetizione – la traccia numero 13 ovvero “Song to say goodbye” (La canzone per dire addio). Qui di seguito il video completo del singolo, un vero e proprio cortometraggio d’autore.

 

 

 

 

 

PERIODO IN CUI LEGGERE “LIZZIE” E “L’INCUBO DI HILL HOUSE” 

Se siete sull’orlo di un crollo nervoso e vi sembra che il vostro baricentro si sia spostato.  Approfittate dello slittamento di equilibrio per apprezzare il cambio di prospettiva, soprattutto perché distorta, e quindi in accordo con il vostro fisiologico sdoppiamento.

COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA

L’album degli Audience intitolato “The house on the hill”. Un manifesto underground del progressive anni ’70. La copertina – definita una delle più belle della storia del rock – è un raffinato inno al cinema horror vintage, con tanto di salotto signorile anni ’40 e un cadavere trascinato dal maggiordomo nel retro del vinile. La canzone omonima è un racconto dark, in cui gli incubi si fanno ingombranti, ovviamente nelle casa sulla collina.

 

 

 

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