di Beatrice Galluzzi
“La città devastata che abbiamo dentro“. Questo leggo, una volta tornata a casa, nella dedica che mi ha fatto Emanuela Cocco sul frontespizio del suo libro. Ho avuto il piacere di conoscerla di persona e apprezzare la sua presenza scenica anche fuori dalla scena. Ma questa è tutta unʼaltra storia.
Quella che vi voglio raccontare oggi, invece, è dentro al suo libro Tu che eri ogni ragazza (Wojtek, 2018). In realtà, di storia non ce nʼè una sola, ma tante quante i binari della stazione Termini: che paiono infiniti, anche se numerati fino a trentadue. È proprio intorno alle rotaie, ai bar, ai mendicanti, ai ragazzini, ai pendolari, a quelli capitati lì per caso o alle persone che preferirebbero aver sbagliato strada, che succedono i fatti. “I passeggeri si preparano a scendere. Si divideranno appena aperte le porte. Separarsi è nella loro natura. Lʼesasperante indugiare della voce registrata detta lʼarrivo.” Quello che accade arriva e basta; si vede, come quando si va al cinema con gli occhialetti 3D. E se ciò che ci troviamo davanti fa paura, beh, non ci si può alzare; non possiamo semplicemente uscire dalla sala e tornare agli avanzi delle nostre lasagne. Emanuela, quello che vediamo tutti i giorni, quello che scavalchiamo nel momento stesso in cui viene messo a fuoco, ce lo inietta sottopelle.
Le voci narranti del libro sono fondamentalmente tre: un padre, una ragazza e unʼassistente sociale. In più, come un aggancio metatestuale, appaiono i due soggetti fuori campo A e B. Il padre – chiamato poi Gesù – parla dal di dentro rivolgendosi alla figlia che ha perduto. Lʼadolescente, detta Jungla, osserva le mediocrità del mondo dal di fuori ma attraverso una lente deformata dal suo essere onirica. Lʼassistente sociale, Duca, è immersa in battaglie che si perpetrano nei giorni perennemente grigi dellʼemarginazione. I loro percorsi, indipendenti lʼuno dallʼaltro, si sfiorano, ma senza sfociare nella realizzazione.
La Roma in cui si vive leggendo Tu che eri ogni ragazza è una capitale fin troppo reale per essere appetibile, fatta di sguardi perduti, degrado, ignoranza, dispersione. I cui gli unici colori – artefatti come la stessa visione collettiva della Caput Mundi – sono quelli fosforescenti che lampeggiano allʼinterno dei negozi sportivi. Benvenuti. Questo è il dentro e il fuori contemporaneamente.
Gesù, il martire di se stesso, la colpa negata di una figlia uccisa per mancanza di unʼirrealizzabile protezione, passa le sue giornate a dare spiccioli ai mendicanti. “Tua madre ha dato di matto quando le ho detto che ho preso una stanza vicino alla stazione. Ha chiesto: perché proprio lì? Penso che il problema sia il fatto che è qui che è successo. Ma io le ho risposto che è successo in questo mondo, dove non importa.” Jungla, menomata dalla sua incapacità di essere sgraziata in modo socialmente consono – non volgare, non provocatoria, ma solo ingombrante. “Ora è in sé. Impassibile, incurante del mondo, ma consapevole della sua mole, che le permette di potersi difendere e, nel caso, di attaccare. Questa è Jungla che è andata a riprendere il suo cuore. Una ragazza enorme con le ali ai piedi, ma senza testa, senza cuore, pronta a scattare.” Duca, alla ricerca di uno dei suoi casi disperati e disperanti, incerta tra il desiderio di redenzione e quello di aprire i pugni per lasciar andare. “Nei racconti di Adele a Duca pare di incontrare unʼantica sé stessa agghindata di tutta la chincaglieria di convinzioni e talenti caduti ormai in disuso di cui era stata nutrita dai suoi genitori, una sé stessa testimone di un mondo fossile in cui avevano ancora diritto di cittadinanza parole come: “merito” “orgoglio” “dignità” “pudore” e in cui aveva ancora accesso a una risoluta indignazione.”
Non troverete affatto un margine consolatorio in questo libro. E per fortuna. Non serve mica tanto rimanere spettatori. Pretendere che la violenza, gli stupri e intere vite inavvertibili rimangano come tali. Emanuela, invece, non tralascia nulla. Tra le pagine del suo libro – in ogni singola riga, e in ogni singola parola – cʼè un focus maniacale, uno zoom così profondo da riuscire a farci entrare non nella trama, ma nelle viscere esposte dei personaggi che la attraversano.
B – Dillo.
A – È colpa mia.
B – Puoi scommetterci che è colpa tua.
A – Non interrompere.
B – Scusa.
A – È colpa mia. Sono la causa di ogni tua sofferenza. Quello che sei, la rabbia e il disgusto che provi, tutto il dolore depositato in te hanno una ragione: sono io la ragione.
PERIODO IN CUI LEGGERE TU CHE ERI OGNI RAGAZZA
In un momento i cui ci sentiamo distaccati dal presente. Quando le notizie che fruiscono attraverso i filtri dei fruitori sembrano non esserci più sufficienti. Storie come questa – non vere ma reali – provocano il genere di scossa di cui abbiamo bisogno per sdegnarci del tutto e ripartire. Perché siamo pezzi sconnessi tra loro, tenuti insieme da fili desensibilizzati allʼelettricità. Il tipo di trama decostruita di questo libro, può rimescolarci quel tanto che serve a riportarci alla nostra intatta instabilità.
COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA
Il jazz di Annie Ross & The Low Note Quintet, in particolare “Prisoner of life” – anche parte della O.S.T. di America Oggi (Short Cuts) di Robert Altman. La voce grave di Annie affonda nelle atmosfere nebulose dei locali notturni, miasmi che rendono i contorni sfumati, e ci fanno addentrare incerti in una caverna iperrealista, come quella in cui ci trasporta Emanuela, col talento della sua polifonia.
di Beatrice Galluzzi
Un pensiero riguardo “TU CHE ERI OGNI RAGAZZA”