In “Vicolo dellʼimmaginario” (Sellerio, 2019), Simona Baldelli delinea, con una scrittura nitida, i profili smussati di unʼombra accessoria. Una zona buia in cui si annida lo spettro di ciò che eravamo, delle persone che ci siamo lasciati alle spalle o di quelle che, nonostante la distanza del tempo, non vogliamo lasciar andare. Magari, quell’ombra non la vediamo, o non ci fa piacere notarla.
Amalia, una delle protagoniste del libro, ha il coraggio di farle spazio. La sua piccola ombra la accompagna, mentre percorre le vie accecanti di Lisbona. Ed è solo in questa città, calata in un fondale fiabesco, che qualcuno riesce a notare la sua doppia proiezione. Quel qualcuno che riesce a riconoscere Amalia, ancor prima che sia stata lei ad accettare il vero eco di sé stessa. “Ecco la grazia da chiedere a Nostra Signora della Luce: illuminare la piccola ombra nera e cancellarla con la forza splendente. Subito si pente e china la testa a cercarla. È raggomitolata sotto il sedile nel punto meno illuminato, finalmente chetata. Spera non le abbia letto nel pensiero perché la piccola ombra è tutto ciò che le resta del suo giorno più brutto, ma che non vuole scordare.”
Come se stesse percorrendo la mappatura delle vene che attraversano il suo corpo, Amalia si muove per le vie della città, assecondando un tragitto apparentemente casuale, ma in realtà del tutto in linea con un istinto che le sembrava perduto. Il bianco latteo delle strade non le dà tregua e si acquieta solo quando Amalia si addentra in un vicolo minuscolo e buio, cedendo al bisogno di ricongiungersi al suo ventre. È Beco do Imaginario, dove si trova la piccola osteria di Tia Marga. Un luogo irreale a tal punto da essere intensamente salvifico, che diventerà lʼutero dal quale Amalia riuscirà a rinascere.
“Chiudi gli occhi e immagina di bere il latte. Cosa vedi?”
“Una madre che si stacca un bambino dal seno.
“E cosa fa il piccolo?”
“Piange.”
Tia Marga beve un sorso di vino e fa sì con la testa. “Mi hai raccontato il tuo primo rimpianto.”
“Io non volevo un figlio.”
“No, ma avresti voluto una madre.”
Dallʼaltra parte cʼè Clelia, una ragazza poco più che ventenne, che vive nella provincia milanese. Sono gli anni ʼ60, Clelia lavora come operaia in una fabbrica di cinghie, ed è proprio lì che conosce quello che diventerà prima il suo amore e il suo perpetuo tormento. Un ragazzo buono, Dario, che per averla vicina sopporta anche le visite in casa, dove la madre di Clelia non le risparmia scortesie, vivendo protesa sempre verso lʼaltra figlia, Marisa, malata di poliomielite. “Invece le pietre erano rimaste lì. Alcuni giorni erano più aguzze del solito e spingevano come se volessero tagliare la carne e saltar fuori. Camminare le faceva bene. Il dondolio delle gambe le smussava e aggiustava il grembo. Rendeva il peso più sopportabile. […]Quando aveva conosciuto Dario, sulla porta del Reparto, le pietre avevano fatto un balzo e si erano sgranate.” Per portarla a ballare, Dario la passa a prendere con la sua 600 all’interno della quale, stretti l’uno allʼaltra, fiorisce senza fretta il loro affetto. Spesso, lungo la strada per la balera, Amalia chiede a Dario di fermarsi per potere osservare il fiume Enza. “Però non la accompagnava, aveva sempre lasciato che si incamminasse da sola verso il parapetto, forse per pudore o perché intuiva che era un momento tutto della ragazza, chissà cosa andava a spiare nellʼacqua bassa.”
È invece del fiume Tago, che Amalia sente il richiamo. A Lisbona è tempo di carnevale e, tra le viuzze ingombre di festeggiamenti, svicolano maschere luttuose; si attende la nebbia, un miasma rivelatore che giungerà proprio dal fiume. Amalia ha da poco conosciuto Antonio, lʼunico uomo che è riuscito a vedere la sua piccola ombra nascosta, appendice dei piedi. Lui e i suoi amici le parlano di cosa sia per loro il fado, che tradotto in italiano non corrisponde esattamente al fato ma “non è né allegro né triste, è la stanchezza dellʼanima forte, lʼocchiata di disprezzo del Portogallo a quel Dio cui ha creato e che poi lʼha abbandonato.” Amalia, quella stessa sorte, è riuscita a ribaltarla. Ha fatto della sua fuga a Lisbona il fulcro dell’insurrezione di una vita scivolata la tre mani, trasparente e polare, come lʼacqua dove si rievocano anime irrequiete.
Clelia, nellʼombra della sorella malata, cede alla colpevolezza di essere sana e quindi ricca, e le regala lʼunica fortuna che le è mai toccata: Dario. E lei, Marisa, accecata dalla contentezza, sembra sollevarsi dalla zoppia e diventa la moglie di un uomo che non ha alcun legame con lei, se non la pietà. Eppure i pezzi del puzzle, col tempo, sembrano coincidere, i contorni riescono a incastrarsi. È solo Clelia che non riesce a trovare posizione, fino a quando: “Le pietre si rivoltarono e si piantarono nella carne. Le venne una gran voglia di spingere Marisa giù per le scale, lei, le sue mèches bionde, le arie da signora e la gamba matta. «Ma chi te lo tocca, tuo marito! Se lo volevo me lʼero già preso, che lo conosco da prima di te.» E si guardarono, senza bisogno di chiedere altro. Una era stata avvertita, Dario era proprietà privata. Lʼaltra era stata informata che, volendo, le cose potevano cambiare.”
Le due protagoniste di “Vicolo dell’immaginario“, narrate con l’ammirabile eleganza di Simona Baldelli, una l’assorbimento dell’altra, immergono il lettore in un camminamento acquatico da cui si riemerge nuovamente empatici, intrisi di accettazione per le nostre inafferrabili, e per questo tanto care, sfaccettature di malinconia.
PERIODO IN CUI LEGGERE “VICOLO DELLʼIMMAGINARIO”
Se avete perso il contatto con la vostra parte immaginifica, lasciandovi cullare dallʼandamento fluido degli eventi. Se vi sembra di aver allungato la mano, per poi trovare stretto nel pugno solo una piccola nuvola di nebbia. Questo libro vi può ricongiungere a un irrealismo liberatorio e, allo stesso tempo, alla concretezza necessaria per il cambiamento.
COLONNA SONORA DA ASCOLTARE DURANTE LA LETTURA
Le atmosfere magiche e impalpabili dei Sigur Ros sono lʼaccoppiata perfetta a un libro come Vicolo dellʼImmaginario. Questa band islandese riesce a condensare lʼapice del turbamento in una meravigliosa armonia di suoni. Soffermatevi su un album come “() Untitled”, in particolare sulla canzone Njosnavelin, che risulta lʼaccordo perfetto tra commozione e soavità.
Inoltre, come piccolo indizio, vi suggerisco di ascoltare Amália Rodrigues, la cantante che, all’interno del libro, tesse un filo invisibile tra le due protagoniste.
di Beatrice Galluzzi